Categoria: Quaderni Politici

Il Blog di UMBERTOZIMARRI.EU –  Un luogo di riflessione sulle dinamiche politiche, economiche e sociali, ispirato ai principi della giustizia sociale, della sostenibilità ambientale e dell’innovazione.

  • Milano: Oltre la Cronaca, Una Questione di Democrazia Urbana

    Milano: Oltre la Cronaca, Una Questione di Democrazia Urbana

    Riflessioni su una trasformazione che Esclude e sul concetto di Democrazia Urbana

    Quello che dovremmo approfondire, riguardo la vicenda Milano, è l’enorme tema politico che questa vicenda si porta dietro, perché ci costringe a guardare in faccia una realtà molto più complicata rispetto alla narrazione costruita in questi 15 anni. Una realtà che riguarda la democrazia urbana e il diritto alla casa.

    Il Miracolo Milanese: A Che Prezzo?

    Milano, dall’Expo in poi, si è trasformata. Completamente. Totalmente. Letteralmente. È stata una metropoli in fermento, di eventi, di nuove energie. La narrazione del “miracolo milanese” ha dominato il dibattito pubblico per oltre un decennio: una città che si è saputa reinventare, che ha attirato capitali internazionali, che è diventata il simbolo di un’Italia che funziona. Quante volte abbiamo sentito la frase, per molti aspetti anche a ragione, “l’unica grande città italiana veramente europea”.

    Questa trasformazione, però, non è stata gratis. Il prezzo lo hanno pagato i lavoratori, gli studenti, gli anziani. Lo ha pagato chi guadagna poco e ha smesso di permettersi un affitto, in una città dove la crisi abitativa a Milano è ormai strutturale. I quartieri popolari sono stati svuotati, sostituiti da zone “riqualificate” dove però nessuno può più vivere, se non può comprare.

    Un esempio concreto di esclusione urbana.

    La Geografia dell’Esclusione

    Guardiamo i numeri con onestà. Negli ultimi 8 anni, i canoni di affitto sono aumentati in misura uguale nel centro di Milano e in periferia: si parla, infatti, di poco più del 42% nel capoluogo e del +39% nei comuni limitrofi.

    È quanto messo in luce dall’ultimo report di Immobiliare.it.

    I quartieri “rigenerati” raccontano una storia precisa: appartamenti venduti come investimento a fondi internazionali, spazi pubblici trasformati in centri commerciali a cielo aperto, AirBnB dovunque. Dove prima c’erano comunità, oggi ci sono consumatori. Insomma, dove prima c’erano cittadini, oggi ci sono clienti con portafogli.

    Nel 2016, per permettersi una casa a Milano bisognava mettere in conto una spesa di circa 3.600 euro/mq, mentre in periferia di meno di 1.900 euro/mq”, spiegano gli esperti di Insights. “Adesso, invece, il costo delle case nel capoluogo meneghino supera i 5.400 euro/mq, con l’hinterland che è invece rimasto a 2.240 euro/mq.”

    Questi dati mostrano con chiarezza come il mercato immobiliare di Milano abbia contribuito ad allargare le disuguaglianze.

    Chi Decide lo Sviluppo Urbano?

    Il tema, ovviamente, non è solo milanese ma riguarda buona parte di tutte le grandi città occidentali. La politica ha accettato l’idea che il “dinamismo” del mercato immobiliare fosse di per sé un bene, che ogni nuovo grattacielo fosse un segno di progresso, che ogni operazione immobiliare portasse automaticamente benefici alla collettività.

    Il risultato è sotto gli occhi di tutti: le città diventano sempre più belle per chi la visita, sempre più impossibili per chi ci deve vivere. Così Milano diventa una città che funziona come vetrina internazionale, ma che ha smesso di funzionare come casa per i suoi abitanti.

    Il Paradosso della Crescita Escludente

    Il paradosso milanese è emblematico di una contraddizione più ampia. Milano cresce economicamente, attrae investimenti, aumenta il PIL, migliora le sue performance sui ranking internazionali. Eppure, contemporaneamente, esclude sempre più persone dal diritto fondamentale all’abitare.

    Non è un caso che mentre nascevano i nuovi quartieri del lusso, le liste d’attesa per le case popolari a Milano si allungassero a dismisura. Non è un caso che mentre si moltiplicavano i co-working e gli spazi per la “creatività”, chiudessero i centri sociali e gli spazi di aggregazione gratuiti. Non è un caso che mentre cresceva l’offerta di appartamenti per affitti brevi destinati al turismo, diminuisse drasticamente quella per affitti lunghi destinati ai residenti.

    Chi Governa lo Spazio Urbano?

    Ma una città non è un business. Non possiamo continuare a costruire quartieri per investitori e lasciare vuoti i diritti. “Una città non è un business. La domanda fondamentale è: chi governa lo spazio urbano? Il denaro o la politica? E, parallelamente, dobbiamo inderogabilmente chiederci: qual è l’incidenza del primo sulle scelte della seconda? Altrimenti non ne usciamo.”

    È la questione centrale della democrazia urbana contemporanea. Quando il mercato immobiliare diventa l’unico regolatore dello sviluppo cittadino, quando i prezzi delle case diventano l’unico criterio per decidere chi può vivere dove, stiamo di fatto consegnando la democrazia ai capitali.

    Il diritto alla città – concetto elaborato dal sociologo Henri Lefebvre già negli anni Sessanta – diventa allora non un’astrazione teorica, ma una rivendicazione concreta: il diritto di tutti i cittadini a partecipare alla vita urbana, ad abitare gli spazi centrali, ad avere voce nelle decisioni che riguardano il territorio.

    Verso una Nuova Visione Pubblica delle Città

    Servirebbe una nuova visione pubblica delle città. Serveribbe una legge nazionale sulla casa che riporti urbanistica, edilizia e territorio dentro la sfera della giustizia sociale e della giustizia ambientale.

    Questo significa innanzitutto rimettere al centro il ruolo della pianificazione pubblica. Non si tratta di essere contro il mercato o contro lo sviluppo economico. Si tratta di riaffermare che esistono beni comuni – il territorio, lo spazio urbano, il diritto all’abitare – che non possono essere lasciati interamente alle dinamiche del profitto. Senza alcun freno.

    Significa ragionare in termini di edilizia residenziale pubblica, non solo per le fasce più deboli ma per la classe media che oggi è esclusa dal mercato. Significa regolamentare il mercato degli affitti, introducendo meccanismi di controllo sui prezzi nelle aree metropolitane. Significa riservare quote significative di ogni nuovo sviluppo immobiliare all’housing sociale.

    Democrazia urbana: la Casa Come Diritto, Non Come Merce

    Perché la casa è un diritto. E lo spazio in cui viviamo non può essere solo una merce. Questa affermazione, che potrebbe sembrare ovvia, rappresenta invece una rottura radicale con il paradigma dominante degli ultimi decenni.

    Riconoscere la casa come diritto significa accettare che lo Stato deve intervenire attivamente per garantire che tutti i cittadini abbiano accesso a un alloggio dignitoso. Significa accettare che il mercato, da solo, non è in grado di soddisfare questo bisogno fondamentale. Significa investire risorse pubbliche significative in una politica abitativa che oggi, in Italia, è praticamente inesistente.

    La democrazia urbana oltre gli Slogan: Riconoscere le Contraddizioni

    Per cambiare davvero le città, dobbiamo smettere di raccontarle solo con gli slogan. E iniziare a riconoscerle per quello che sono. Anche quando la verità è scomoda e ci pone davanti a problemi politici estremamente complessi, perchè di questo si tratta.

    Milano non è solo la capitale economica che attrae talenti internazionali. È anche la città dove un insegnante non può più permettersi di vivere vicino alla scuola in cui insegna. Non è solo la metropoli dei grattacieli scintillanti. È anche la città dove gli anziani vengono espulsi dai quartieri in cui hanno vissuto una vita intera. Dove un giovane alla prima esperienza lavorativa non può vivere da solo e pur condividendo una casa farebbe fatica ad arrivare a fine mese.

    Riconoscere queste contraddizioni non significa essere nemici dello sviluppo. Significa voler costruire uno sviluppo più giusto, più inclusivo, più democratico. Significa voler costruire città che siano davvero per tutti i loro abitanti, non solo per chi può permettersele. Guardare al cosidetto modello Vienna, per esempio, può essere una buona idea.

    Milano, con le sue contraddizioni, ci offre l’opportunità di guardare in faccia questi problemi e di iniziare a costruire alternative concrete.

    L’opportunità di immaginare e costruire città più giuste. Ma solo se avremo il coraggio di andare oltre la cronaca e di affrontare le questioni politiche di fondo. Solo se smetteremo di considerare normale che il diritto all’abitare sia un privilegio di pochi.

  • Rapporto Caritas: i volti dietro i numeri.

    Rapporto Caritas: i volti dietro i numeri.

    La povertà cambia volto diventa stabile, nascosta e quotidiana: il nuovo Rapporto Caritas ci restituisce un’immagine inquietante: la povertà oggi è più stabile, più silenziosa, più profonda.

    Partiamo dai dati nudi e crudi:

    • Oltre una persona su quattro è in stato di bisogno da almeno cinque anni.
    • Cresce il numero degli anziani poveri: nel 2015 erano il 7,7%, oggi sono il 14,3%.
    • Quasi un assistito su quattro ha un lavoro: ma non basta per vivere.
    • Il calo dei salari reali ha raggiunto il -8,7% dal 2008 ad oggi, il dato peggiore tra i Paesi del G20.

    Il dato più emblematico riguarda proprio il lavoro: oggi avere un lavoro non basta più per vivere con dignità. È il fallimento di un modello economico che sacrifica diritti e salari sull’altare della competitività.

    Il Rapporto Caritas 2025 e le sfide per la politica

    “Il mattino viene, ma è ancora notte”. Con queste parole profetiche il report Caritas 2025 ci introduce in un’Italia che spesso non fa notizia. Un’Italia che soffre in silenzio, ai margini delle statistiche ufficiali. Ma che chiede ascolto. E dignità.

    Nel 2024, più di 277.000 persone e famiglie si sono rivolte ai centri Caritas sparsi sul territorio nazionale. Dietro a questo numero, ci sono madri sole che non riescono a pagare l’affitto, pensionati che scelgono tra la spesa e le medicine, giovani che lavorano ma restano poveri. Non sono “emarginati”. Sono il popolo. Sono le persone che incrociamo quotidianamente nella nostra vita e troppo spesso sono soli.

    Le due grandi emergenze: casa e salute

    Come un doppio assedio, la crisi abitativa e la fragilità sanitaria colpiscono chi è già vulnerabile.

    • In molte città, trovare una casa a prezzi accessibili è quasi impossibile.
    • Il sistema sanitario pubblico fatica a curare le malattie dei poveri: troppe liste d’attesa, troppe spese da anticipare, troppa burocrazia.

    Se sei povero, ti ammali di più, vivi in ambienti peggiori, mangi peggio. E vieni curato peggio.

    È una spirale di esclusione che non è degna di un Paese civile.

    Inoltre, oltre la metà degli assistiti ha figli minori. Bambini che crescono senza possibilità, senza accesso a sport, cultura, mobilità, fiducia. L’Italia è il Paese in Europa dove è più probabile ereditare la povertà dei genitori.

    Nel frattempo, si moltiplicano i nuclei familiari spezzati, le persone sole, le donne separate che vivono in precarietà. O le madri migranti che reggono tutto il peso della sopravvivenza.

    Non si tratta solo di economia. Si tratta di vita quotidiana: la povertà rompe i legami, isola, toglie voce, logora il tempo e l’identità.

    Rapporto Caritas: la giustizia sociale come bussola

    L’assistenza da sola non basta, serve la politica, servono le politiche. C’è necessità di scelte forti e strutturali, lungimiranti, umane.

    • Istituire un salario minimo legale: perché lavorare deve significare vivere, non sopravvivere.
    • Riformare l’Assegno di inclusione, rimuovendo logiche punitive, semplificando l’accesso e ampliando la platea.
    • Potenziare la sanità pubblica: abolire ticket, rafforzare la medicina territoriale, garantire cure gratuite per tutti.
    • Avviare un piano casa nazionale: edilizia popolare, affitti calmierati, recupero di immobili abbandonati.
    • Investire sull’infanzia e sulla scuola pubblica, per rompere la catena intergenerazionale della povertà.
    • Avviare politiche migratorie inclusive, basate su accoglienza, diritti e percorsi di cittadinanza.

    “Chi nasce povero non deve restare povero. La politica serve a cambiare i destini, non a confermarli.”

    Scarica qui il Report Caritas 2025

  • Trump, la Juventus e Il silenzio nello Studio Ovale

    Trump, la Juventus e Il silenzio nello Studio Ovale

    Ci sono fotografie che sembrano uscite male.

    Non perché sfocate o mosse, ma perché mettono a fuoco qualcosa che nessuno voleva davvero vedere. Come quella scattata nello Studio Ovale della Casa Bianca, dove Donald Trump siede al centro della scena e una delegazione della Juventus rimane immobile sullo sfondo, in una posa che ha il sapore della resa.

    Ci sono immagini che raccontano più di mille editoriali.
    Non perché mostrino l’inatteso, ma perché fissano in uno scatto il vuoto che si è scelto di abitare. Il calcio di Infantino, lo sappiamo, è da tempo più vicino alle cerchie del potere che agli spalti popolari. Ma c’è una differenza tra il compromesso e l’inchino, tra la diplomazia e l’obbedienza.

    Quella visita alla Casa Bianca – senza una partita vinta, senza un titolo da festeggiare, senza un senso sportivo evidente – ha l’amaro sapore della passerella. Una sfilata di muscoli in tuta di rappresentanza, mentre il mondo brucia alle spalle.

    Il monologo di Trump nello Studio Ovale: il silenzio imbarazzato della Juventus

    Trump parla. Come sempre, parla di sé, del mondo come lo vede e lo divide. In mezzo infila frasi contro la cosiddetta “ideologia gender”, mentre gli atleti dietro di lui restano muti.
    Non applaudono, non ridono, non commentano.
    Stanno. Come statue in un museo della complicità.

    Non è questione di simpatia o antipatia politica, ma di coerenza.

    I calciatori – alcuni dei quali impegnati pubblicamente in cause sociali – sembrano spaesati. Non parlano, non sorridono. Stanno lì, immobili, a fare da sfondo all’ennesimo monologo presidenziale. In quel silenzio, però, c’è tutta l’ambiguità di un sistema che preferisce compiacere il potere anziché metterlo in discussione.

    Ci si chiede: perché? A che scopo esporre la maglia bianconera – al di là di ogni questione di tifo, carica di storia e simboli – al trono dorato del populismo americano, in questo momento storico?

    I valori divisi in due

    La Juventus si è prestata a un teatrino che nulla ha a che fare con lo sport, con il fair play, con i valori universali che il pallone dovrebbe difendere. Nulla a che vedere con le terze maglie sostenibili, le campagne per i diritti civili, lo sviluppo del calcio femminile di cui la società è all’avanguardia nel nostro paese.

    È come se esistessero due club: uno che proclama valori progressisti negli sport, l’altro che si piega silenzioso davanti al potere.

    Lezioni dalla storia e dalla contemporaneità

    Senza scomodare il coraggio di Carlos Humberto Caszely, i pugni chiusi di Smith e Carlos, viene in mente anche Jesse Owens, Berlino 1936. Anche lui costretto a competere sotto gli occhi di un regime, ma almeno correva per dimostrare che il mito della superiorità razziale era una bugia.

    O come non citare Muhammad Ali, che nel 1967 rifiutò di andare in Vietnam:

    “Nessun vietcong mi ha mai chiamato negro”.

    Pagò il prezzo della coerenza, ma restò se stesso.
    Gli atleti di oggi, invece, sembrano aver smarrito persino la possibilità del rifiuto. Difficile non pensare a cosa sarebbe successo se al loro posto ci fossero stati LeBron James o Megan Rapinoe . Atleti che conoscono il peso di una maglia, ma anche il valore di un gesto, di una parola, di un rifiuto. Che hanno trasformato la loro visibilità in strumento di coscienza civile, accettando le conseguenze.

    Una fotografia che è un monito

    E allora quella foto non è un ricordo. È un monito. Ci ricorda quanto facilmente lo sport possa essere piegato alla propaganda, quanto sia fragile la sua autonomia, quanto urgente sia ripensare il ruolo pubblico degli atleti. Perché se chi rappresenta milioni di tifosi non sa dire di no a un invito, anche quando questo tradisce ogni principio dichiarato, allora forse abbiamo perso di vista il gioco.

    Diciamolo chiaramente per tanti, dirigenti, atleti, giornalisti, commentatori, vale ancora il mantra stanco: “gioca e non parlare“. Lo sportivo modello è quello funzionale, silenzioso, allineato. L’atleta che non disturba il manovratore. Così si finisce con l’essere parte del set, dello scenario, senza nemmeno accorgersene.

    Non importa, lo ripeto al di fuori di ogni dubbio, se fosse la Juventus o un altro club.

    È quel silenzio, quel gelo nei volti, che racconta un’occasione persa per dire qualcosa, per sottrarsi, per dimostrare che lo sport è anche coscienza, è anche coraggio.

    Il calcio del 2025 può ancora essere più di un gioco o di uno spettacolo, ma per riuscirci, deve smettere di fare da tappezzeria ai salotti del potere. Anche a costo di perdere qualche applauso.
    Anche a costo di dire: “No, grazie.”

    Perché a volte, nella storia, il gesto più nobile è proprio quello di non esserci

  • Referendum: perchè partecipare e votare Sì

    Referendum: perchè partecipare e votare Sì

    Cinque quesiti, una sola direzione: dare più potere a chi oggi ne ha meno. È questo il cuore della questione. Ed è per questo che votare SÌ è una scelta che guarda a una società più giusta e più democratica. L’8 e il 9 giugno saremo chiamati a esprimerci su cinque referendum abrogativi che toccano la vita quotidiana di milioni di persone perchè riguardono temi come il lavoro e la cittadinanza.

    Perchè è importante partecipare?

    In un tempo in cui la politica sembra distante, partecipare è l’unico antidoto alla rassegnazione. Scegliere di votare è prima di tutto un gesto di libertà. L’articolo 1 della nostra Costituzione ci dice che la sovranità appartiene al popolo: ma appartiene davvero solo se viene esercitata. Se non partecipiamo, se rinunciamo a dire la nostra, quella sovranità si dissolve. Non scompare dalla Carta, ma evapora dalla realtà. Non si vota per un partito. Non si sceglie un governo. Si vota prima di tutto per far sentire la propria voce.

    SCHEDA VERDEVOTARE SÌ. Licenziamento illeggittimo e contratti a tutele crescenti.

    Di cosa si parla?

    Il referendum propone di abrogare (cioè cancellare) il decreto legislativo n. 23 del 4 marzo 2015, uno dei provvedimenti principali del cosiddetto Jobs Act, introdotto durante il governo Renzi. Questo decreto ha creato una nuova forma di contratto a tempo indeterminato, chiamato “a tutele crescenti”, valido per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi, nelle aziende con più di 15 dipendenti.

    Cosa ha cambiato il Jobs Act?

    Prima del 2015, se un lavoratore veniva licenziato senza una giusta causa o senza giustificato motivo, aveva diritto – in molti casi – a essere reintegrato nel suo posto di lavoro, come previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Con il Jobs Act, invece, il reintegro è diventato un’eccezione. Nella maggior parte dei casi, chi viene licenziato illegittimamente riceve solo un’indennità economica (cioè un risarcimento in denaro), calcolata in base all’anzianità di servizio, ma non torna al lavoro. Questa riforma ha indebolito fortemente le tutele per i lavoratori.

    Cosa chiede il referendum?

    Il referendum chiede di abrogare il decreto del 2015 e di tornare alla disciplina precedente, quella più favorevole al lavoratore. In pratica:

    • In caso di licenziamento illegittimo, il giudice potrà ordinare il reintegro nel posto di lavoro (non solo un risarcimento).
    • Si ristabilisce l’impianto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, prima della riforma del Jobs Act.
    • Le tutele tornerebbero uguali per tutti i lavoratori a tempo indeterminato, indipendentemente dalla data di assunzione.

    Chi è coinvolto?

    Il quesito riguarda milioni di lavoratori assunti dal 2015 in poi, che oggi non godono delle stesse protezioni di chi è stato assunto prima. Colpiti in particolare:

    • Tutti i lavoratori a tempo indeterminato post-2015;
    • Le aziende con più di 15 dipendenti;
    • Il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, che diventerebbe più equilibrato.

    Perché votare ?

    Votare SÌ sulla scheda verde significa voler ripristinare un diritto fondamentale del lavoratore: quello di essere reintegrato se viene licenziato ingiustamente.

    SCHEDA ARANCIONE – PERCHE’ VOTARE Sì – Tutele contro i licenziamenti nelle piccole imprese

    Di cosa si parla?

    Il quesito riguarda i lavoratori delle piccole aziende, cioè quelle con meno di 16 dipendenti. Oggi questi lavoratori, se licenziati senza una giusta causa o senza giustificato motivo, non possono essere reintegrati e hanno diritto a una indennità economica limitata.

    La legge attuale (nello specifico l’articolo 8 della legge 604/1966) fissa un tetto massimo all’indennità, che non può superare sei mensilità di stipendio, anche nei casi più gravi.

    Cosa propone il referendum?

    Il quesito propone di abrogare questo limite. Se vince il , non ci sarà più un tetto fisso e l’indennità sarà decisa dal giudice, caso per caso, tenendo conto di vari fattori:

    • La gravità dell’ingiustizia del licenziamento;
    • L’età del lavoratore;
    • I suoi carichi familiari;
    • Le condizioni economiche dell’azienda.

    In questo modo, chi viene licenziato ingiustamente in una piccola azienda potrà ricevere un risarcimento più equo e proporzionato al danno subito.

    Perché è importante?

    Oggi esiste una disparità evidente tra lavoratori di grandi aziende e quelli di piccole imprese. Chi lavora in una ditta con meno di 16 dipendenti ha meno diritti, anche quando viene licenziato senza motivo valido. Questo referendum vuole ridurre questa ingiustizia.

    Perché votare ?

    Votare SÌ sulla scheda arancione significa dire che la giustizia e la dignità valgono per tutti, anche nelle piccole aziende. È un passo per rendere il lavoro davvero tutelato, per tutti, e non una condizione di debolezza permanente.

    SCHEDA GRIGIA- PERCHE’ VOTARE Sì – Contro l’abuso dei contratti a tempo determinato

    Di cosa si tratta?

    Il quesito propone di abrogare una parte del Jobs Act che consente alle aziende di assumere lavoratori a tempo determinato per un massimo di 12 mesi senza dover indicare alcun motivo. In altre parole, oggi un’azienda può usare il contratto a termine anche se non c’è alcuna necessità reale, senza darne conto a nessuno, nemmeno davanti a un giudice.

    Questa flessibilità totale ha creato un uso esteso e spesso abusivo del lavoro precario: secondo la CGIL, oltre 2 milioni di lavoratori sono coinvolti.

    Cosa cambierebbe se vince il ?

    Votando SÌ si reintroduce l’obbligo della causale: cioè, un datore di lavoro dovrà giustificare per iscritto perché sta usando un contratto a termine e non uno stabile (a tempo indeterminato).

    Le “causali” ammesse potrebbero essere, ad esempio:

    • picchi di produzione stagionali;
    • sostituzioni temporanee;
    • attività eccezionali o sperimentali.

    Se l’azienda non ha un motivo valido, non potrà utilizzare un contratto a tempo determinato. E il giudice potrà valutarne la legittimità.

    Perché è importante?

    Il lavoro a termine dovrebbe servire per situazioni eccezionali, non per coprire posti di lavoro stabili con lavoratori precari, ricattabili e privi di diritti. Eliminando la causale, il Jobs Act ha aperto la porta a un uso sistematico e indiscriminato di questi contratti.

    Votare SÌ significa ridare dignità e stabilità al lavoro.

    Perché votare

    Votare SÌ sulla scheda grigia significa dire basta alla precarietà senza regole. È una scelta per un lavoro più giusto, stabile, dignitoso.

    SCHEDA MAGENTA – PERCHE’ VOTARE Sì – Più responsabilità per chi appalta. Più tutela per i lavoratori.

    Di cosa si tratta?

    Questo quesito chiede di rafforzare le tutele per i lavoratori in caso di infortuni o malattie professionali, aumentando la responsabilità dell’imprenditore che affida un appalto (cioè il committente).

    Oggi la legge dice che il committente è responsabile solo in certi casi, e può sottrarsi alla responsabilità se l’infortunio deriva da un rischio tipico dell’attività dell’appaltatore o del subappaltatore.

    Questa eccezione è un modo per scaricare le colpe e sfuggire alla responsabilità civile in molti incidenti sul lavoro.

    Cosa cambierebbe se vince il ?

    Votando SÌ si cancella l’esclusione di responsabilità per i rischi tipici dell’appaltatore, rendendo il committente sempre corresponsabile, insieme all’appaltatore e ai subappaltatori, nei casi di infortuni o malattie professionali in assenza di copertura assicurativa (INAIL o IPSEMA).

    In pratica:

    • L’imprenditore che affida i lavori non potrà più lavarsene le mani.
    • Avrà interesse a controllare davvero che sicurezza e tutele siano rispettate lungo tutta la catena degli appalti.
    • I lavoratori non resteranno più soli nel chiedere giustizia.

    Perché è importante?

    Troppi incidenti sul lavoro avvengono in condizioni precarie, soprattutto negli appalti e subappalti, dove la sicurezza viene spesso sacrificata per il risparmio.

    Dare una responsabilità diretta anche al committente significa mettere pressione su chi prende decisioni e prevenire gli incidenti prima che avvengano.

    Chi ha il potere economico non può essere anche quello che sfugge più facilmente alle responsabilità.

    Perché votare ?

    📌 Votare SÌ sulla scheda viola significa stare dalla parte della vita, della giustizia, della responsabilità. Una democrazia che si rispetti non può tollerare che il profitto venga prima della sicurezza sul lavoro.

    SCHEDA GIALLA – PERCHE’ VOTARE Sì – Cittadinanza dopo 5 anni: più diritti, più dignità, più Italia.

    Di cosa si tratta?

    Il referendum propone di ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale continuativa in Italia necessario per poter richiedere la cittadinanza italiana. Oggi, anche se la legge parla di 10 anni, la realtà è che tra burocrazia e attese si arriva spesso a 13 anni o più prima di diventare cittadini a tutti gli effetti. Il referendum vuole correggere questa ingiustizia.

    Cosa cambierebbe se vince il ?

    • Dopo 5 anni di vita regolare in Italia, una persona potrà presentare la domanda di cittadinanza;
    • Non cambia nulla sugli altri requisiti (conoscenza della lingua, reddito stabile, assenza di reati);
    • La cittadinanza ottenuta potrà essere trasmessa ai figli minorenni.

    Chi riguarda?

    • Oltre 2 milioni di persone, molte delle quali vivono, lavorano e pagano le tasse in Italia da anni;
    • Giovani che sono cresciuti qui, che parlano italiano e si sentono italiani, ma che oggi vivono da stranieri in casa propria;
    • Famiglie che da troppo tempo aspettano riconoscimento e pari diritti.

    Perché è importante?

    • Perché cittadinanza è appartenenza, non concessione;
    • Perché chi vive qui stabilmente, rispetta le regole, contribuisce alla società, deve poter avere voce;
    • Perché inclusione è sicurezza, è democrazia, è coesione sociale;
    • Perché troppe persone vivono in una zona grigia di diritti negati, pur essendo pienamente parte della nostra comunità.

    Perché votare ?

    📌 Votare SÌ sulla scheda grigia significa dire che chi vive qui, lavora qui, cresce qui, è parte dell’Italia. E ha diritto di essere riconosciuto come tale. Una democrazia non può restare cieca davanti a milioni di vite invisibili.

    LINK UTILI

    https://www.ilpost.it/2025/05/05/guida-referendum-8-9-giugno/

    https://partitodemocratico.it/8-e-9-giugno-5-si-ai-referendum-su-lavoro-e-cittadinanza

    https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/i-cinque-referendum-di-fronte-a-noi-ragioni-per-votare-si

  • Mujica ci ha insegnato che vivere è più importante che possedere

    Mujica ci ha insegnato che vivere è più importante che possedere

    È con profonda tristezza che il mondo dice addio a José “Pepe” Mujica, l’ex presidente dell’Uruguay che ha lasciato un’impronta indelebile non solo nella storia del suo paese, ma nella coscienza collettiva globale. Un uomo che ha trasformato la semplicità in una rivoluzione e la sua vita in un potente messaggio per l’umanità.

    Uno dei pochi politici capaci di incarnare fino in fondo una filosofia di vita radicata nella coerenza, nella sobrietà, nella libertà.

    Jose “Pepe” Mujica: Il rivoluzionario diventato statista

    Il percorso di Mujica è stato straordinario quanto improbabile. Da guerrigliero Tupamaro a prigioniero politico fino a diventare presidente di quella stessa nazione che lo aveva imprigionato. Ma ciò che lo ha reso davvero unico è stato il rifiuto di trasformarsi in ciò contro cui aveva combattuto.

    Durante la sua presidenza (2010-2015), mentre altri leader mondiali vivevano nei palazzi del potere, Mujica continuava ad abitare nella sua modesta fattoria alla periferia di Montevideo, guidava una vecchia Volkswagen Maggiolino e donava il 90% del suo stipendio presidenziale. Non era una strategia di comunicazione, ma l’autentica espressione di una filosofia di vita che ha definito “l’austerità che libera”. Quando parlava, ogni parola sembrava un seme lanciato nella terra dell’umanità, nella speranza che qualcosa – un pensiero, un dubbio, una ribellione – potesse germogliare.

    La rivoluzione della sobrietà

    “La mia forma mentis è quella di un contadino vecchio stile”, amava ripetere. Eppure, da questo apparente anacronismo, Mujica ha estratto una saggezza profondamente attuale. In un mondo ossessionato dal consumo compulsivo, la sua voce roca ricordava che “essere poveri non è avere poco, ma desiderare infinitamente di più”.

    La sua critica al modello di sviluppo globale non era ideologica ma esistenziale: “Abbiamo inventato un modello di civilizzazione dove stiamo sacrificando la vita al consumo. La vera libertà non è possedere, ma avere tempo.

    Vi pongo una domanda: cos’è la libertà? La mia definizione casereccia, da vecchio, è la seguente: sono libero quando spendo il tempo della mia vita in ciò che mi piace. Per uno sarà una cosa, per un altro un’altra, ma finché dovrò lottare per i bisogni materiali, per sostenere la mia vita, non sarò libero, sarò sottomesso alla legge della necessità.

    Quando faccio con il tempo della mia vita quel che mi piace – dormire sotto un albero, giocare a calcio, leggere un romanzo o ascoltare un concerto, è un fatto personale – allora sono me stesso, mentre non lo sono quando resto sottomesso alla legge della necessità. Pertanto posso aumentare la mia libertà avendo maggior quantità di tempo, così da spendere parte della mia vita nelle cose che mi motivano. Se dunque lasciamo astratto il concetto di libertà, non riusciamo a trasmettere la battaglia personale che tutto questo implica.

    Credo che gli esseri umani, essendo animali sociali, debbano lavorare e dare un apporto alla società in cui ci è toccato vivere, altrimenti sarebbero parassiti. La nostra vita, però, non è stata fatta solo per lavorare, è stata fatta per vivere, cosa per cui è necessario avere tempo da impegnare in quello che c’è di fondamentale: tempo per gli amici, tempo per l’amore, tempo per l’avventura. Perché? Perché l’orologio della vita scorre e il tempo scivola via.

    Credo che possiamo guarire la nostra civiltà solo cercando di dare risposta a tali questioni. Non chiediamoci al mercato di risolverle, non è stato fatto per questo. È piuttosto una questione d’organizzazione umana e, come tale, un tema per la politica più alta.

    Durante il suo mandato ha promosso politiche progressiste che hanno fatto dell’Uruguay un laboratorio di diritti civili: dalla legalizzazione della marijuana alla regolamentazione dell’aborto e del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ma il suo vero contributo è stato molto più profondo: ha dimostrato che si può governare senza rinunciare all’umanità, ai propri valori e alla propria autenticità.

    Il Presidente Mujica: le politiche e la visione

    Nel panorama politico contemporaneo, dominato da tecnocrati distanti dalla realtà quotidiana o da populisti che sfruttano le paure collettive, Mujica ha rappresentato una terza via: quella dell’autenticità. “Il potere è come bere da un bicchiere d’acqua. Se è troppo grande, ti cade dalle mani”, ammoniva.

    La sua presidenza ha dimostrato concretamente che un’altra politica è possibile – una politica che non si fonda sulla manipolazione ma sul dialogo sincero, non sulla contrapposizione ma sulla ricerca del bene comune. Mujica ha trasformato la vulnerabilità in forza, ammettendo pubblicamente i propri errori e limiti: “Non sono un messia, sono pieno di difetti, come tutti”.

    In un’epoca in cui i politici tendono a presentarsi come esseri infallibili, la sua onestà intellettuale rappresentava una ventata d’aria fresca. Non offriva soluzioni miracolose, ma invitava a una riflessione collettiva: “Non possiamo risolvere i problemi con lo stesso pensiero che li ha creati”.

    Il suo approccio alla politica rifiutava la logica del “noi contro loro” per abbracciare una visione inclusiva: “Non odio i ricchi, ma mi domando fino a quando continueremo ad accumulare a spese degli altri”. In un mondo polarizzato, la sua capacità di dialogare con tutti senza compromettere i propri principi resta un esempio raro e prezioso.

    Un uomo del suo tempo e oltre il suo tempo

    Guardando alla sua vita straordinaria, ciò che colpisce di più è come un uomo nato in una famiglia di contadini poveri, che ha attraversato alcune delle pagine più buie della storia latinoamericana, sia riuscito a emergere non con risentimento ma con saggezza, non con sete di vendetta ma con un messaggio di moderazione e umanità.

    In un’epoca di politica polarizzata, di discorsi infuocati e di promesse grandiose, Mujica ha ricordato il valore della semplicità, dell’onestà e della coerenza. Ha dimostrato che si può essere rivoluzionari senza violenza, radicali senza estremismo, e che la più grande forma di leadership è quella che riconosce la propria comune umanità.

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  • La portata universale di Papa Francesco

    La portata universale di Papa Francesco

    Perché è stato così importante Papa Francesco? L’eredità sociale, culturale e morale del pontefice venuto “dalla fine del mondo”

    Papa Francesco lascia un segno indelebile nel terzo millennio dell’umanità. È stato un pontefice capace di parlare al mondo intero, credenti e non, incarnando valori universali come la giustizia, la solidarietà e la cura del creato. Perché Papa Francesco è stato così importante? Non solo per il suo ruolo spirituale, ma per la sua influenza etica e sociale, che ha travalicato i confini del Vaticano.

    Il difensore dei migranti in un’epoca di muri

    In un periodo storico segnato dall’innalzamento di barriere fisiche e ideologiche, Francesco ha costantemente richiamato l’attenzione sulla “globalizzazione dell’indifferenza”. La sua visita a Lampedusa nel 2013, primo viaggio ufficiale del suo pontificato, ha segnato simbolicamente l’inizio di un impegno instancabile. “Chi piange per queste persone morte nel tentativo di migliorare le proprie condizioni?”, chiedeva allora, ponendo una domanda scomoda ai leader politici europei e mondiali.

    Non si è limitato alla denuncia: il suo appello “accogliere, proteggere, promuovere e integrare” è diventato un punto di riferimento per organizzazioni umanitarie e istituzioni. Ha criticato apertamente le politiche migratorie restrittive, sfidando le posizioni di governi e partiti populisti, e trasformando la questione dei migranti da problema di sicurezza nazionale a imperativo morale universale.

    La voce dell’ecologia integrale

    Con l’enciclica “Laudato Si’” del 2015, Papa Francesco ha compiuto un passo storico: il primo documento papale interamente dedicato alle questioni ambientali. La sua “ecologia integrale” ha collegato in modo innovativo la crisi climatica alle disuguaglianze sociali, offrendo una critica sistemica dell’attuale modello economico.

    Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale”, scriveva, anticipando dibattiti che sarebbero diventati centrali negli anni successivi. Questo approccio ha influenzato accordi internazionali sul clima e ispirato movimenti ambientalisti globali. La sua visione ha saputo parlare tanto ai leader mondiali quanto alle giovani generazioni impegnate nell’attivismo climatico.

    La lotta intransigente contro le mafie

    “Non si può credere in Dio ed essere mafiosi”, ha dichiarato Francesco con fermezza davanti alla tomba di don Pino Puglisi. Il suo impegno contro la criminalità organizzata è stato caratterizzato da gesti simbolici potenti e da parole inequivocabili. La scomunica pronunciata durante la visita in Calabria nel 2014 ha rappresentato una svolta storica nel rapporto tra Chiesa e mafie.

    Francesco ha denunciato non solo la violenza mafiosa, ma anche la “cultura mafiosa” fondata sulla corruzione e sul clientelismo. Ha sostenuto attivamente chi combatte le organizzazioni criminali, visitando territori difficili e incontrando familiari delle vittime, trasformando così la lotta alle mafie in una battaglia culturale e morale che travalica i confini dell’Italia.

    Lo sport come strumento di inclusione

    Meno noto ma significativo è stato il suo approccio allo sport, visto non come competizione ma come strumento di pace e inclusione sociale. Ha promosso iniziative come “Scholas Occurrentes” e incontri interreligiosi attraverso eventi sportivi, sottolineando come l’attività fisica possa superare barriere culturali, economiche e religiose.

    “Lo sport è una scuola di pace, ci insegna a costruire la pace”, ha ripetuto in diverse occasioni, promuovendo i valori della lealtà e del rispetto reciproco in un’epoca segnata da crescenti tensioni sociali e internazionali.

    E’ stato, inoltre, il papa Tifoso come ci ha ricordato Fabrizio Gabrielli su Ultimo Uomo.

    ” Forse proprio perché, ricco della sua forma mentis argentina, Bergoglio sente – ha sempre sentito – la tentazione di spiegare il mondo attraverso paradigmi calcistici. Di portare la religione fuori dalla religione, nei potreros della vita, tra i diseredati, tra i meno felici, tra quelli ai quali basta un pallone, o un pezzo d’ostia, da farsi bastare per essere un po’ meno tristi, un po’ meno soli. Ha identificato nel pallone un tramite. Un legame ”

    L’ultimo messaggio di Speranza

    Sono vicino alle sofferenze dei cristiani in Palestina e in Israele, così come a tutto il popolo israeliano e a tutto il popolo palestinese. Preoccupa il crescente clima di antisemitismo che si va diffondendo in tutto il mondo. In pari tempo, il mio pensiero va alla popolazione e in modo particolare alla comunità cristiana di Gaza, dove il terribile conflitto continua a generare morte e distruzione e a provocare una drammatica e ignobile situazione umanitaria. Faccio appello alle parti belligeranti: cessate il fuoco, si liberino gli ostaggi e si presti aiuto alla gente, che ha fame e che aspira ad un futuro di pace!». E sul tema immigrazione ha aggiunto: «Quanta volontà di morte vediamo ogni giorno nei tanti conflitti che interessano diverse parti del mondo! Quanta violenza vediamo spesso anche nelle famiglie, nei confronti delle donne o dei bambini! Quanto disprezzo si nutre a volte verso i più deboli, gli emarginati, i migranti!».

    Papa Francesco: un’eredità che supera i confini religiosi

    Il “Papa venuto dalla fine del mondo” ha saputo incarnare un nuovo modello di leadership globale: umile nei gesti, diretto nel linguaggio, intransigente sui principi ma aperto al dialogo con tutti. La sua capacità di parlare ai non credenti, di affrontare temi controversi e di richiamare le istituzioni alle proprie responsabilità ha ridefinito il ruolo del papato nel XXI secolo.

    L’eredità di Francesco va ben oltre il recinto ecclesiastico: ha offerto una visione alternativa di società fondata sulla solidarietà, sulla sostenibilità e sulla dignità umana. In un’epoca di crescente polarizzazione, ha rappresentato una voce che ha saputo unire rigore morale e compassione, tradizione e innovazione, principi non negoziabili e pragmatismo.

    La sua scomparsa lascia un vuoto ma per tutti coloro che hanno visto in lui un riferimento etico in tempi complessi.

  • Ventotene oggi

    Ventotene oggi

    La becera sceneggiata della Presidente Giorgia Meloni ha svelato, con brutale evidenza, il volto attuale della destra italiana: un volto che si dimostra ontologicamente estraneo all’eredità del Manifesto di Ventotene e al progetto europeo che da quel documento ha tratto origine.

    L’episodio ha rappresentato più di un semplice momento politico: è stata una cartina di tornasole che ha definitivamente dissolto, se ce ne fosse ancora bisogno, l’illusione di una destra “europea” e moderata. Un’operazione mediatica, pensata per coprire il momento di difficoltà della coalizione di Governo, che, nei fatti, ha ribadito l’approccio nazionalistico e frammentario che Spinelli e Rossi avevano lucidamente prefigurato e combattuto.

    Un’eredità sotto attacco

    Ventotene, oltre ad essere una splendida e selvaggia isola, è il luogo dove Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni scrissero il celebre “Manifesto di Ventotene” nel 1941, delineando una visione di un’Europa federale e democratica, capace di superare i nazionalismi che avevano portato alla guerra.

    Ventotene oggi: come attualizzare un patrimonio di idee?

    L’idea di futuro delineata nel Manifesto di Ventotene è oggi messa alla prova non solo dalle tensioni internazionali e dall’ascesa dei populismi, ma anche da una retorica politica che tende a svuotarla del suo significato originale.

    Come spesso accade in Italia, il dibattito generato dall’evento conferma un paradosso ricorrente nella nostra cultura politica: la tendenza a trasformare documenti fondativi – che si tratti del Manifesto di Ventotene o della Costituzione – in semplici icone retoriche, prive del loro potenziale trasformativo.

    Ma il Manifesto di Ventotene non è un feticcio da commemorare. È un progetto politico da riattualizzare costantemente. Il rischio, altrimenti, è la sua banalizzazione.

    Un’Europa all’altezza delle sfide

    L’Europa immaginata da Altiero Spinelli e dai suoi compagni era un’Europa unita e federale. Oggi, questo significa rafforzare i poteri del Parlamento europeo e superare il diritto di veto nel Consiglio dell’UE, per costruire un’Unione più democratica, capace di rispondere alle crisi con rapidità ed efficacia.

    Serve inoltre un pilastro sociale europeo vincolante, con salari minimi, welfare comune e una protezione reale per i lavoratori. Senza giustizia sociale, non può esserci un’Europa davvero coesa.

    Una politica estera e di difesa comune

    Non esiste un futuro europeo senza una politica estera e di difesa comune. Ma questo non significa costruire eserciti più grandi. Piuttosto, serve un vero Esercito Europeo e, soprattutto, una capacità diplomatica autonoma, capace di prevenire conflitti e gestire le crisi globali con cooperazione e mediazione.

    Un sistema di accoglienza europeo

    Non si può invocare l’unità europea senza affrontare una delle sue più grandi contraddizioni: l’assenza di un Sistema di Accoglienza Europeo. È necessario un meccanismo comune per la gestione delle domande d’asilo, vie legali per i migranti economici e un piano di investimenti nei Paesi di origine per affrontare le cause profonde delle migrazioni.

    Ventotene, faro del Mediterraneo

    L’isola di Ventotene può diventare un faro nel Mediterraneo, ospitando un istituto permanente di formazione per giovani attivisti, amministratori e ricercatori impegnati a costruire il futuro dell’Europa. Un’accademia aperta agli studenti di tutta l’UE, in cui studiare politiche ambientali, governance democratica e strategie contro le disuguaglianze, con un’attenzione speciale al Mediterraneo e al suo ruolo nel mondo.

    Attualizzare il Manifesto di Ventotene significa difenderne la visione e rilanciarne la portata rivoluzionaria. Perché un’Europa più unita, giusta e democratica non è un’utopia, ma una necessità.

  • Welfare europeo e difesa comune come responsabilità

    Welfare europeo e difesa comune come responsabilità

    L’inizio di una riconnessione sociale

    In Moby Dick, il capitano Achab insegue ossessivamente la balena bianca, convinto che solo distruggendola potrà dare un senso alla sua esistenza. Ma quella balena è anche il simbolo di un’ossessione che gli impedisce di vedere la realtà con lucidità. Nella politica, come nella vita, chi si ostina a vedere il mondo in bianco e nero, senza cogliere le sfumature e le differenze, rischia di naufragare come la Pequod. E’ una metafora poltica potentissima se guardiamo a quello che è successo negli ultimi 30 anni.

    In questi quasi due anni di segreteria Schlein, molti commentatori hanno volutamente minimizzato l’impatto del cambiamento in atto. Altri, soprattutto tra i duri e puri, si sono limitati a ripetere il più classico voglio di più, senza riflettere sul fatto che il cambiamento, soprattutto in un Partico come quello Democratico, non è mai immediato né lineare. È il risultato di scelte, scontri e compromessi, con l’obiettivo di mantenere unitarietà e visione.

    Troppo facile dire che non cambia mai nulla. Troppo facile lamentarsi di un cambiamento insufficiente se poi non si contribuisce a spingerlo avanti. In politica, come nella società, il cambiamento richiede tempo, coraggio e capacità di gestire la complessità. Comprendere le differenze e saperle valorizzare è la vera sfida per chi vuole costruire un’alternativa credibile e progressista.

    Gli elettori, spesso più lucidi di molti analisti, hanno riconosciuto questo processo di rinnovamento. Lo hanno premiato, facendo crescere il PD nel 2024 e riportandolo sopra il 20%. Certo, non ci si può accontentare, ma è un primo passo significativo. Il percorso è iniziato, ma non ancora completato, e va perseguito con determinazione. Ricostruire un’identità profonda per il Partito Democratico richiederà anni, non mesi. Non esistono scorciatoie: l’unica strada è un lavoro costante per riportare il Partito nei territori e, al tempo stesso, riportare i territori dentro il Partito.

    Welfare europeo e difesa comune

    Il momento storico che stiamo vivendo è di estrema complessità, in particolare in Europa. La posizione espressa dalla Segretaria è coraggiosa: riconoscere che la sicurezza comune è un tema fondamentale, ma non può essere perseguita a scapito del welfare state. Un concetto semplice, quasi ovvio, eppure diventato un boomerang nella politica italiana ed europea degli ultimi 15 anni, persino nei partiti socialdemocratici. In due parole: welfare europeo e difesa comune come una responsabilità verso il futuro.

    Poiché la politica si fa con l’intelligenza degli avvenimenti, comprendere il contesto in cui ci si muove è essenziale. E proprio per questo appare inspiegabile che, davanti a una maggioranza di governo divisa, un gruppo di europarlamentari del PD, incluso il Presidente, abbia votato contro l’indicazione della Segretaria.

    Coltivare il dubbio su questo piano di riarmo non significa abbandonare l’Ucraina, né essere subordinati al Movimento Cinque Stelle. Significa invece riaffermare un’idea di Unione Europea come comunità di popoli e persone, basata sulla coesione e sul welfare state. Proprio questi strumenti sono in grado di sottrarre carburante ai nazionalismi. Non si tratta di ingenuità o di parlare di pace senza praticarla, ma di lavorare concretamente per un’Europa con una difesa comune e una visione condivisa. Non può essere accettabile l’allentamento dei vincoli di bilancio europei solamente per spese riguardanti la difesa.

    Sacrificare temi così cruciali per mere dinamiche interne o, peggio ancora, per strategie di logoramento sarebbe non solo miope, ma imperdonabile.

  • Ue: abbiamo un problema

    Ue: abbiamo un problema

    Ad un passo dal precipizio: tra Trump, Putin e le ambiguità interne

    Questa volta non è Houston ad avere un problema. L’elefante è nella nostra stanza. Per essere più precisi, è nelle vite di milioni di cittadini europei che vivono uno dei momenti più delicati dal dopoguerra. L’Unione Europea sta attraversando la sua crisi più profonda da decenni. Pressata dall’esterno da Donald Trump e Vladimir Putin e logorata all’interno da forze ambigue e nazionaliste come quelle rappresentate da Giorgia Meloni e Viktor Orbán, l’UE rischia di implodere sotto il peso delle sue incertezze.

    L’UE messa ai margini: un pericolo esistenziale

    Nelle ultime settimane, una verità scomoda si è palesata e ha aperto gli occhi a tutti: l’Europa non è più al centro delle decisioni globali. I più attenti non lo scoprono certo adesso, è chiaro da anni. La narrazione, però, è sempre stata tutt’altra. Noi “Europie” pensiamo di essere ancora il centro del mondo, sia dal punto di vista strategico sia da quello decisionale. La realtà, amara, ci dice altro. La recente telefonata tra Trump e Putin sulla pace in Ucraina lo ha dimostrato chiaramente. Siamo ben oltre il campanello d’allarme, perché per anni non abbiamo ascoltato le campane che invano ci avvisavano.

    “Nessun accordo raggiunto alle nostre spalle funzionerà”, ha dichiarato l’Alto rappresentante dell’UE, Kaja Kallas. Ma questa affermazione, per quanto giusta, è sufficiente? L’UE può davvero permettersi di restare a guardare mentre altri decidono del suo futuro? Quanti oggi possono alzare la mano per affermare di credere, non nella forma, ma nel concreto, a quella affermazione? Le immagini del vertice di Macron trasmettono debolezza, incertezza e anche un po’ di tristezza.

    La verità è che oggi l’Europa è un semplice spettatore sullo scacchiere internazionale. Gli USA di Trump, con la loro politica isolazionista un giorno e aggressiva per altri dieci, e la Russia di Putin hanno nel mirino un grande obiettivo: smantellare il sogno europeo. Se non reagiamo ora, potremmo risvegliarci in un continente frantumato, incapace di difendere i suoi valori e i suoi cittadini.

    L’ambiguità della Meloni: un veleno per l’Europa

    A rendere ancora più grave la situazione sono le ambiguità interne. Giorgia Meloni si presenta come europeista a Bruxelles, ma in patria strizza l’occhio alle destre sovraniste e anti-UE. Questa doppiezza non solo mina la credibilità dell’Italia, ma crea fratture pericolose all’interno dell’Unione. A rafforzare questa tendenza è la crescente influenza dell’asse con Viktor Orbán, il leader ungherese che ha fatto del nazionalismo autoritario il suo marchio politico. Insieme, Meloni, Orbán e gli altri ipernazionalisti incarnano un progetto di “internazionale sovranista” che sta funzionando benissimo: indebolire e depotenziare dall’interno le istituzioni comunitarie a favore di un’Europa frammentata, facendo il gioco di personaggi come Elon Musk e Donald Trump, con i quali sperano di trattare interessi esclusivi dei singoli stati nazionali, senza comprendere di essere utilizzati come “cavalli di Troia”.

    MAGA (Make America Great Again) e MEGA (Make Europe Great Again) sono slogan vuoti che ignorano la complessità delle sfide globali e alimentano una retorica populista e divisiva. L’idea che ogni nazione possa “fare da sé” in un mondo interconnesso è un’illusione pericolosa, un’ideologia che non tiene conto delle reali necessità economiche, energetiche e di sicurezza dell’Europa. Un principio così semplicistico che persino un bambino capirebbe che favorisce le nazioni più grandi e potenti.

    UE: o rilancio o barbarie

    L’Europa non può permettersi leader che parlano con due lingue diverse. In un momento storico in cui servono unità e coesione, il gioco di Meloni e la complicità di Orbán rischiano di indebolire tutto il progetto europeo, aprendo la strada a una deflagrazione politica e sociale senza precedenti.

    Davanti a questa crisi, l’unica risposta possibile è un rilancio deciso del progetto europeo. Non possiamo permetterci un’Europa paralizzata dai veti nazionali, incapace di rispondere alle sfide globali. Servono politiche comuni in materia di difesa, economia ed energia. Solo con una vera integrazione l’UE può sperare di resistere alle tempeste geopolitiche.

    E non c’è solo la politica. L’Europa ha una missione storica: guidare la transizione ecologica. Il Green Deal non è solo un piano ambientale, ma una strategia per l’indipendenza energetica e la sicurezza economica. Investire in rinnovabili significa sottrarsi al ricatto dei regimi autoritari, garantire posti di lavoro e creare un futuro sostenibile.

    La retorica del bivio è stata spesso utilizzata, ma oggi (non domani o dopodomani) siamo davvero a un punto di svolta. O si trova il coraggio di prendere decisioni forti, di unirsi davvero e di costruire un futuro comune, oppure l’Europa rischia di sgretolarsi sotto il peso delle proprie debolezze.

    La domanda è: avremo il coraggio di reagire prima che sia troppo tardi?

  • Trump, la politica e noi

    Trump, la politica e noi


    È cambiato tanto, quasi tutto, dalla prima elezione di Donald Trump a oggi. Quella prima vittoria venne liquidata come un “voto di protesta”, un’espressione di malcontento episodico e imprevedibile. Oggi non è più così. Quel voto, ormai, è parte integrante di un disegno complessivo che abbraccia politica e società. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca non è un imprevisto figlio del caso, ma il risultato di un’ideologia – perché di questo si tratta – che si è imposta con il sostegno, diretto e indiretto, dei colossi tecnologici e di grandi gruppi di potere economico.

    L’illusione della “rivoluzione democratica”


    La retorica che accompagna il ritorno di Trump e l’evoluzione del “voto di protesta” tende a mascherare una realtà cruciale: quella in corso non è un processo dal basso, ma una trasformazione in cui il potere decisionale si concentra in mani sempre più ristrette. In questo scenario, la democrazia, invece di essere ampliata, rischia di essere svuotata dei suoi principi fondamentali. Per questo, ad esempio, dopo la vittoria del tycoon, Zuckerberg è subito salito sul carro delle politiche del vincitore, partecipando al pranzo di gala per difendere il suo impero economico. Dietro alla facciata di un movimento popolare, dunque, il processo decisionale è sempre più centralizzato e ristretto, influenzato da attori privilegiati: politici populisti, grandi multinazionali tecnologiche e media che veicolano narrazioni polarizzanti. Parimenti, la costante delegittimazione del “sistema corrotto” – utilizzata come leva politica – mina la fiducia pubblica nelle istituzioni, rendendole sempre meno capaci di operare come garanti della democrazia.

    Si fa presto a dire libertàL’idea di Donald Trump


    A questo quadro, già complesso e delicato, si lega una questione più profonda che tocca il concetto stesso di libertà. La libertà promossa da Trump non è un progetto di emancipazione collettiva, ma una licenza di abbandonarsi agli istinti più bassi. È una libertà che giustifica l’insulto, la discriminazione e l’odio, contrapposta a un presunto “politicamente corretto” imposto dalle élite. Trump si rivolge direttamente alle fasce sociali più deboli, con un messaggio che scava nelle paure e nelle insicurezze: “Io, maschio – bianco – etero, a te uomo – maschio – bianco ti rendo di nuovo libero”.

    Il messaggio non solo è passato, ma ha attecchito in profondità. Ha alimentato una lotta di classe orizzontale, non più contro chi detiene il potere economico, ma contro chi condivide la stessa condizione sociale, pur essendo “altro” rispetto a me: un immigrato, una donna, una minoranza. Oppure verso il basso, contro chi, nella narrazione trumpiana, “toglie risorse” o “rende insicure le nostre città”.

    Questo fenomeno, però, non si limita né agli Stati Uniti né a un paese specifico. È l’essenza di un’internazionale sovranista che avanza rapidamente, coordinandosi non tanto su un pensiero unico, quanto su un obiettivo comune. Cambiano i volti – in alcuni casi, come in Italia, anche il genere – ma il modello resta lo stesso: un attacco sistematico alla pluralità e alle istituzioni democratiche, mascherato da rivoluzione popolare.

    Per una socializzazione della politica

    La domanda politicamente, ma anche sociologicamente, più interessante è perché questo profondo malcontento verso le ingiustizie evidenti non venga indirizzato davvero verso chi ha in mano le redini di questa grande ragnatela: un’oligarchia economica e politica. Senza una risposta a questa domanda, sviluppata e pensata su una scala anch’essa globale, difficilmente si scalfirà questo sistema che mira a concentrare ancor di più le ricchezze, evitando “freni e lacciuoli” e, parallelamente, a cambiare volto alle istituzioni.

    Qualcuno, giustamente, potrebbe obiettare che è un processo che va avanti da decenni. Giusto. È così. Non si è capito o non si è voluto vedere; in entrambi i casi, ci sono gravi responsabilità sulle mancate risposte e, ancor di più, sulla costruzione di un pensiero di contrapposizione capace di rispondere alle esigenze sociali o, più semplicemente, alle ingiustizie e storture del mondo. A questo dovrebbe servire la politica – giusto?

    Invece, viviamo in un periodo storico in cui cresce l’interesse per il dibattito quotidiano anche su temi sociali e civili ma, parallelamente, decresce la partecipazione a partiti, organizzazioni sindacali, associazioni e persino alle elezioni stesse. Si cerca una risposta individuale, non collettiva. Ognuno ha voglia di dire la sua, di scendere in campo sull’ennesima discussione social, ma difficilmente si muove per uscire di casa e partecipare a un evento, una riunione o un’iniziativa. Restando, però, sul campo dell’individualismo o dell’opinionismo generalizzato, nulla si muoverà. Nulla cambierà. È lo stesso schema che vogliono Trump, Musk e tutti gli altri. In quel campo sono più forti. C’è bisogno, invece, di una nuova socializzazione della politica, che deve tornare a incidere sulla vita e sui problemi delle persone, non una discussione continua che non sposta di un millimetro i processi decisionali.

    Nel prossimo articolo una riflessione su “Elon Musk come attore politico”