Parlare di sport, oggi, significa parlare del mondo. È una mappa sociale, un lessico politico, un modo di raccontare chi siamo. EcoSportivamente dedica una puntata a questa idea: lo sport come specchio della società, come narrazione che può includere o escludere, emancipare o confermare gerarchie.
A guidarci in questo viaggio è Marialaura Scatena, giornalista sportiva e filosofa, una delle voci che più hanno contribuito a dare al calcio femminile un linguaggio e una prospettiva nuova.
La sua visione nasce da un’intuizione semplice ma radicale: la narrazione sportiva è già politica culturale. Ogni cronaca, ogni parola, ogni metafora costruisce un immaginario. Decidere come raccontare lo sport significa decidere chi può abitarlo. “Lalla” non si limita a registrare i risultati: scava nei gesti, nei contesti, nei silenzi. Per lei, il giornalismo sportivo è un atto culturale, capace di restituire all’atleta la sua dimensione umana e al pubblico un pensiero più profondo su ciò che vede. Il racconto del gesto tecnico e/o l’analisi tattica, l’atleta e il contesto: i tre elementi imprescindibili per un racconto sportivo degno di questo nome.
Dietro questa visione c’è un’idea chiara: lo sport non è neutro. È un dispositivo di potere che riflette e riproduce le disuguaglianze della società.
In Italia, più che calciofili, siamo “calciocentrici”: viviamo dentro una cultura che ha fatto del pallone il perno dell’immaginario collettivo, ma spesso lo ha usato per rafforzare gerarchie, non per scardinarle. Il modo in cui il sistema sportivo è costruito — chi gestisce, chi viene rappresentato, chi ottiene spazio — racconta molto di più dei gol segnati in campo.
Ma le gerarchie non si fermano al genere.
Scatena guarda allo sport come a un laboratorio per comprendere l’intersezionalità delle discriminazioni: genere, razza, orientamento sessuale, classe sociale. Essere una donna nello sport è già una sfida; essere una donna nera o non eterosessuale significa moltiplicare gli ostacoli, combattere ogni giorno contro invisibilità e pregiudizio.
In questo senso, lo sport femminile non è una copia del maschile: è una genealogia diversa, costruita attraverso la resistenza. È un mondo che nasce da battaglie e che può ancora insegnare qualcosa su come ridefinire i rapporti di potere, per questo spera che in futuro il calcio femminile non diventi una copia di quello femminile.
La sostenibilità, in questo racconto, non è solo ecologica ma profondamente umana.
Per Scatena, non può esistere una sostenibilità ambientale separata dalla giustizia sociale: lo sport sostenibile è quello che rispetta le persone, i territori, i limiti. È quello che sa misurarsi con la sobrietà, con il paesaggio, con la collettività.
Il legame intimo con la natura è inscindibile dalle radici abruzzesi dell’ospite, da quella genuinità e semplicità profonda delle aree interne che costituiscono il cuore pulsante, seppur troppo spesso invisibile e marginalizzato, della narrazione del nostro Paese. Terre che custodiscono valori autentici e un rapporto ancestrale con l’ambiente, lontano dai riflettori ma essenziale per comprendere la vera identità italiana.
Non si tratta di un romanticismo ingenuo, ma di una critica precisa a un modello iper-commerciale.
Il calcio femminile, per la sua storia e la sua posizione di partenza, ha oggi la possibilità di proporre un modello alternativo: professionale ma non alienante, competitivo ma non disumano, capace di crescere senza diventare caricatura del sistema che lo ha escluso. Da qui emerge una riflessione più ampia sul ruolo sociale degli atleti e delle atlete.
Scatena li vede come cittadini attivi, non semplici performer.
Chi ha visibilità ha anche la responsabilità di usarla. Non si tratta di trasformare ogni sportivo in un attivista, ma di riconoscere che la popolarità è uno strumento di influenza culturale. Schierarsi, parlare, denunciare — anche a rischio di perdere consensi — significa restituire alla propria professione una dimensione etica e civile.
E poi c’è il linguaggio.
Le parole con cui raccontiamo lo sport non sono mai neutre. Quando i media parlano di “ragazze”, di “gonnelle”, di “calcio in rosa”, non stanno solo descrivendo: stanno definendo i confini del possibile. Cambiare le parole significa cambiare le strutture di pensiero. Significa riconoscere che l’immaginario sportivo italiano — ancora dominato dal maschile, dal centro, dal profitto — può e deve essere riscritto.
Alla fine, questa conversazione non parla solo di calcio o giornalismo.
Parla del potere delle storie. Di come lo sport possa diventare un linguaggio collettivo per ripensare il mondo.
Lo sport come spazio di cittadinanza, come gesto di cura, come terreno in cui immaginare nuove forme di equità.
E forse è proprio qui che si trova il cuore di EcoSportivamente: nella possibilità di guardare allo sport non come spettacolo, ma come cultura viva, come movimento che attraversa l’economia, la politica, la natura e le persone.
Perché, come ricorda MariaLaura, il calcio — e lo sport tutto — è davvero di tutti. Ma solo se impariamo a raccontarlo come un atto di libertà condivisa.

















