Ci sono fotografie che sembrano uscite male.
Non perché sfocate o mosse, ma perché mettono a fuoco qualcosa che nessuno voleva davvero vedere. Come quella scattata nello Studio Ovale della Casa Bianca, dove Donald Trump siede al centro della scena e una delegazione della Juventus rimane immobile sullo sfondo, in una posa che ha il sapore della resa.
Ci sono immagini che raccontano più di mille editoriali.
Non perché mostrino l’inatteso, ma perché fissano in uno scatto il vuoto che si è scelto di abitare. Il calcio di Infantino, lo sappiamo, è da tempo più vicino alle cerchie del potere che agli spalti popolari. Ma c’è una differenza tra il compromesso e l’inchino, tra la diplomazia e l’obbedienza.
Quella visita alla Casa Bianca – senza una partita vinta, senza un titolo da festeggiare, senza un senso sportivo evidente – ha l’amaro sapore della passerella. Una sfilata di muscoli in tuta di rappresentanza, mentre il mondo brucia alle spalle.
Il monologo di Trump nello Studio Ovale: il silenzio imbarazzato della Juventus
Trump parla. Come sempre, parla di sé, del mondo come lo vede e lo divide. In mezzo infila frasi contro la cosiddetta “ideologia gender”, mentre gli atleti dietro di lui restano muti.
Non applaudono, non ridono, non commentano.
Stanno. Come statue in un museo della complicità.
Non è questione di simpatia o antipatia politica, ma di coerenza.
I calciatori – alcuni dei quali impegnati pubblicamente in cause sociali – sembrano spaesati. Non parlano, non sorridono. Stanno lì, immobili, a fare da sfondo all’ennesimo monologo presidenziale. In quel silenzio, però, c’è tutta l’ambiguità di un sistema che preferisce compiacere il potere anziché metterlo in discussione.
Ci si chiede: perché? A che scopo esporre la maglia bianconera – al di là di ogni questione di tifo, carica di storia e simboli – al trono dorato del populismo americano, in questo momento storico?
I valori divisi in due
La Juventus si è prestata a un teatrino che nulla ha a che fare con lo sport, con il fair play, con i valori universali che il pallone dovrebbe difendere. Nulla a che vedere con le terze maglie sostenibili, le campagne per i diritti civili, lo sviluppo del calcio femminile di cui la società è all’avanguardia nel nostro paese.
È come se esistessero due club: uno che proclama valori progressisti negli sport, l’altro che si piega silenzioso davanti al potere.
Lezioni dalla storia e dalla contemporaneità
Senza scomodare il coraggio di Carlos Humberto Caszely, i pugni chiusi di Smith e Carlos, viene in mente anche Jesse Owens, Berlino 1936. Anche lui costretto a competere sotto gli occhi di un regime, ma almeno correva per dimostrare che il mito della superiorità razziale era una bugia.
O come non citare Muhammad Ali, che nel 1967 rifiutò di andare in Vietnam:
“Nessun vietcong mi ha mai chiamato negro”.
Pagò il prezzo della coerenza, ma restò se stesso.
Gli atleti di oggi, invece, sembrano aver smarrito persino la possibilità del rifiuto. Difficile non pensare a cosa sarebbe successo se al loro posto ci fossero stati LeBron James o Megan Rapinoe . Atleti che conoscono il peso di una maglia, ma anche il valore di un gesto, di una parola, di un rifiuto. Che hanno trasformato la loro visibilità in strumento di coscienza civile, accettando le conseguenze.
Una fotografia che è un monito
E allora quella foto non è un ricordo. È un monito. Ci ricorda quanto facilmente lo sport possa essere piegato alla propaganda, quanto sia fragile la sua autonomia, quanto urgente sia ripensare il ruolo pubblico degli atleti. Perché se chi rappresenta milioni di tifosi non sa dire di no a un invito, anche quando questo tradisce ogni principio dichiarato, allora forse abbiamo perso di vista il gioco.
Diciamolo chiaramente per tanti, dirigenti, atleti, giornalisti, commentatori, vale ancora il mantra stanco: “gioca e non parlare“. Lo sportivo modello è quello funzionale, silenzioso, allineato. L’atleta che non disturba il manovratore. Così si finisce con l’essere parte del set, dello scenario, senza nemmeno accorgersene.
Non importa, lo ripeto al di fuori di ogni dubbio, se fosse la Juventus o un altro club.
È quel silenzio, quel gelo nei volti, che racconta un’occasione persa per dire qualcosa, per sottrarsi, per dimostrare che lo sport è anche coscienza, è anche coraggio.
Il calcio del 2025 può ancora essere più di un gioco o di uno spettacolo, ma per riuscirci, deve smettere di fare da tappezzeria ai salotti del potere. Anche a costo di perdere qualche applauso.
Anche a costo di dire: “No, grazie.”
Perché a volte, nella storia, il gesto più nobile è proprio quello di non esserci