Autore: Umberto Zimarri

  • L’economia circolare nello sport – La storia di Nicolas Meletiou ed Esosport

    L’economia circolare nello sport – La storia di Nicolas Meletiou ed Esosport

    Ogni sport lascia tracce.
    Tracce sul corpo, nella mente, negli oggetti che usiamo.
    Scarpe consumate, palline sgonfie, camere d’aria bucate.
    Scarti. Residuati di una corsa, di un colpo, di una salita. Ma in quelle tracce c’è ancora una promessa: la possibilità di rinascere. Nicolas Meletiou ha immaginato un mondo in cui ciò che resta non si butta, ma si trasforma. Ha fondato un’azienda che è anche una visione. Un’impresa che unisce lo sport all’economia circolare, il gesto atletico al gesto ecologico e in questa intervista ci spiegherà come tutto questo è possibile. Nella quarta puntata di questa quinta stagione di EcoSportivamente, attraversiamo le storie che si nascondono dietro i rifiuti sportivi. E scopriamo che riciclare non è solo una questione di materiali, ma di sguardi.

    L’economia circolare nello sport: L’idea, il gesto, la visione

    Per Meletiou tutto nasce da un incrocio: l’amore per lo sport e la sensibilità verso l’ambiente. “La scarpa da running, la pallina da tennis, il copertone da bici… sono oggetti carichi di storie, ma anche materiali preziosi che spesso finiscono in discarica. E invece no, possono rinascere”. Così, nel 2010, in un’Italia ancora poco pronta a parlare di rifiuti sportivi, Nicolas lancia il suo progetto. Con tenacia, perché all’inizio ha dovuto superare diffidenze, indifferenze e – ovviamente – burocrazia.

    Ma il tempo gli dà ragione. E i rifiuti cominciano a parlare. O meglio, cominciano a costruire: piste ciclabili, pavimentazioni antitrauma, aree gioco sostenibili. Ogni oggetto raccolto e trasformato è un piccolo atto educativo. Il fine-vita degli oggetti sportivi diventa così un punto cruciale per insegnare alle persone – soprattutto ai più giovani – che anche ciò che finisce può generare futuro.

    Quando la materia si fa poesia

    In esosport, la tecnica convive con la poesia. La sostenibilità diventa qualcosa che si tocca, che si calpesta – letteralmente. I nostri progetti sono fisici, tangibili. Le persone non leggono una brochure: camminano sopra il cambiamento.

    Ed è anche questo il segreto del coinvolgimento. I progetti esosport non sono manifesti astratti, ma luoghi vissuti: come Il Giardino di Betty o La Pista di Filippide, nata nel segno di Pietro Mennea, perché la memoria è una forma di sostenibilità – quella affettiva, quella umana. Non c’è impresa senza emozione.

    Economia Circolare nello sport: un modello europeo

    Il progetto ha varcato i confini italiani. La Danimarca è oggi una delle tappe del viaggio europeo di esosport ed insieme ci siamo proprio chiesti se e cosa cambia in Europa rispetto a questo argomento.

    Il futuro sotto i piedi

    Ogni corsa, ogni colpo, ogni pedalata, lascia sì una traccia… ma quella traccia deve diventare generativa.
    Una scarpa consumata non è solo un oggetto da buttare. È il ricordo di un traguardo, ma anche il punto di partenza per un futuro più giusto, più verde, più consapevole.

    Esosport ci insegna che la sostenibilità è fatta di gesti. Di mani che raccolgono, di menti che progettano, di comunità che si mettono in gioco. E ci ricorda che ciò che resta, se guardato con occhi nuovi, può rinascere.

    Anche il rumore del mondo che consuma può diventare un’eco. L’eco di ciò che vale.
    L’eco di chi non si ferma, ma riparte.

  • Rapporto Caritas: i volti dietro i numeri.

    Rapporto Caritas: i volti dietro i numeri.

    La povertà cambia volto diventa stabile, nascosta e quotidiana: il nuovo Rapporto Caritas ci restituisce un’immagine inquietante: la povertà oggi è più stabile, più silenziosa, più profonda.

    Partiamo dai dati nudi e crudi:

    • Oltre una persona su quattro è in stato di bisogno da almeno cinque anni.
    • Cresce il numero degli anziani poveri: nel 2015 erano il 7,7%, oggi sono il 14,3%.
    • Quasi un assistito su quattro ha un lavoro: ma non basta per vivere.
    • Il calo dei salari reali ha raggiunto il -8,7% dal 2008 ad oggi, il dato peggiore tra i Paesi del G20.

    Il dato più emblematico riguarda proprio il lavoro: oggi avere un lavoro non basta più per vivere con dignità. È il fallimento di un modello economico che sacrifica diritti e salari sull’altare della competitività.

    Il Rapporto Caritas 2025 e le sfide per la politica

    “Il mattino viene, ma è ancora notte”. Con queste parole profetiche il report Caritas 2025 ci introduce in un’Italia che spesso non fa notizia. Un’Italia che soffre in silenzio, ai margini delle statistiche ufficiali. Ma che chiede ascolto. E dignità.

    Nel 2024, più di 277.000 persone e famiglie si sono rivolte ai centri Caritas sparsi sul territorio nazionale. Dietro a questo numero, ci sono madri sole che non riescono a pagare l’affitto, pensionati che scelgono tra la spesa e le medicine, giovani che lavorano ma restano poveri. Non sono “emarginati”. Sono il popolo. Sono le persone che incrociamo quotidianamente nella nostra vita e troppo spesso sono soli.

    Le due grandi emergenze: casa e salute

    Come un doppio assedio, la crisi abitativa e la fragilità sanitaria colpiscono chi è già vulnerabile.

    • In molte città, trovare una casa a prezzi accessibili è quasi impossibile.
    • Il sistema sanitario pubblico fatica a curare le malattie dei poveri: troppe liste d’attesa, troppe spese da anticipare, troppa burocrazia.

    Se sei povero, ti ammali di più, vivi in ambienti peggiori, mangi peggio. E vieni curato peggio.

    È una spirale di esclusione che non è degna di un Paese civile.

    Inoltre, oltre la metà degli assistiti ha figli minori. Bambini che crescono senza possibilità, senza accesso a sport, cultura, mobilità, fiducia. L’Italia è il Paese in Europa dove è più probabile ereditare la povertà dei genitori.

    Nel frattempo, si moltiplicano i nuclei familiari spezzati, le persone sole, le donne separate che vivono in precarietà. O le madri migranti che reggono tutto il peso della sopravvivenza.

    Non si tratta solo di economia. Si tratta di vita quotidiana: la povertà rompe i legami, isola, toglie voce, logora il tempo e l’identità.

    Rapporto Caritas: la giustizia sociale come bussola

    L’assistenza da sola non basta, serve la politica, servono le politiche. C’è necessità di scelte forti e strutturali, lungimiranti, umane.

    • Istituire un salario minimo legale: perché lavorare deve significare vivere, non sopravvivere.
    • Riformare l’Assegno di inclusione, rimuovendo logiche punitive, semplificando l’accesso e ampliando la platea.
    • Potenziare la sanità pubblica: abolire ticket, rafforzare la medicina territoriale, garantire cure gratuite per tutti.
    • Avviare un piano casa nazionale: edilizia popolare, affitti calmierati, recupero di immobili abbandonati.
    • Investire sull’infanzia e sulla scuola pubblica, per rompere la catena intergenerazionale della povertà.
    • Avviare politiche migratorie inclusive, basate su accoglienza, diritti e percorsi di cittadinanza.

    “Chi nasce povero non deve restare povero. La politica serve a cambiare i destini, non a confermarli.”

    Scarica qui il Report Caritas 2025

  • Trump, la Juventus e Il silenzio nello Studio Ovale

    Trump, la Juventus e Il silenzio nello Studio Ovale

    Ci sono fotografie che sembrano uscite male.

    Non perché sfocate o mosse, ma perché mettono a fuoco qualcosa che nessuno voleva davvero vedere. Come quella scattata nello Studio Ovale della Casa Bianca, dove Donald Trump siede al centro della scena e una delegazione della Juventus rimane immobile sullo sfondo, in una posa che ha il sapore della resa.

    Ci sono immagini che raccontano più di mille editoriali.
    Non perché mostrino l’inatteso, ma perché fissano in uno scatto il vuoto che si è scelto di abitare. Il calcio di Infantino, lo sappiamo, è da tempo più vicino alle cerchie del potere che agli spalti popolari. Ma c’è una differenza tra il compromesso e l’inchino, tra la diplomazia e l’obbedienza.

    Quella visita alla Casa Bianca – senza una partita vinta, senza un titolo da festeggiare, senza un senso sportivo evidente – ha l’amaro sapore della passerella. Una sfilata di muscoli in tuta di rappresentanza, mentre il mondo brucia alle spalle.

    Il monologo di Trump nello Studio Ovale: il silenzio imbarazzato della Juventus

    Trump parla. Come sempre, parla di sé, del mondo come lo vede e lo divide. In mezzo infila frasi contro la cosiddetta “ideologia gender”, mentre gli atleti dietro di lui restano muti.
    Non applaudono, non ridono, non commentano.
    Stanno. Come statue in un museo della complicità.

    Non è questione di simpatia o antipatia politica, ma di coerenza.

    I calciatori – alcuni dei quali impegnati pubblicamente in cause sociali – sembrano spaesati. Non parlano, non sorridono. Stanno lì, immobili, a fare da sfondo all’ennesimo monologo presidenziale. In quel silenzio, però, c’è tutta l’ambiguità di un sistema che preferisce compiacere il potere anziché metterlo in discussione.

    Ci si chiede: perché? A che scopo esporre la maglia bianconera – al di là di ogni questione di tifo, carica di storia e simboli – al trono dorato del populismo americano, in questo momento storico?

    I valori divisi in due

    La Juventus si è prestata a un teatrino che nulla ha a che fare con lo sport, con il fair play, con i valori universali che il pallone dovrebbe difendere. Nulla a che vedere con le terze maglie sostenibili, le campagne per i diritti civili, lo sviluppo del calcio femminile di cui la società è all’avanguardia nel nostro paese.

    È come se esistessero due club: uno che proclama valori progressisti negli sport, l’altro che si piega silenzioso davanti al potere.

    Lezioni dalla storia e dalla contemporaneità

    Senza scomodare il coraggio di Carlos Humberto Caszely, i pugni chiusi di Smith e Carlos, viene in mente anche Jesse Owens, Berlino 1936. Anche lui costretto a competere sotto gli occhi di un regime, ma almeno correva per dimostrare che il mito della superiorità razziale era una bugia.

    O come non citare Muhammad Ali, che nel 1967 rifiutò di andare in Vietnam:

    “Nessun vietcong mi ha mai chiamato negro”.

    Pagò il prezzo della coerenza, ma restò se stesso.
    Gli atleti di oggi, invece, sembrano aver smarrito persino la possibilità del rifiuto. Difficile non pensare a cosa sarebbe successo se al loro posto ci fossero stati LeBron James o Megan Rapinoe . Atleti che conoscono il peso di una maglia, ma anche il valore di un gesto, di una parola, di un rifiuto. Che hanno trasformato la loro visibilità in strumento di coscienza civile, accettando le conseguenze.

    Una fotografia che è un monito

    E allora quella foto non è un ricordo. È un monito. Ci ricorda quanto facilmente lo sport possa essere piegato alla propaganda, quanto sia fragile la sua autonomia, quanto urgente sia ripensare il ruolo pubblico degli atleti. Perché se chi rappresenta milioni di tifosi non sa dire di no a un invito, anche quando questo tradisce ogni principio dichiarato, allora forse abbiamo perso di vista il gioco.

    Diciamolo chiaramente per tanti, dirigenti, atleti, giornalisti, commentatori, vale ancora il mantra stanco: “gioca e non parlare“. Lo sportivo modello è quello funzionale, silenzioso, allineato. L’atleta che non disturba il manovratore. Così si finisce con l’essere parte del set, dello scenario, senza nemmeno accorgersene.

    Non importa, lo ripeto al di fuori di ogni dubbio, se fosse la Juventus o un altro club.

    È quel silenzio, quel gelo nei volti, che racconta un’occasione persa per dire qualcosa, per sottrarsi, per dimostrare che lo sport è anche coscienza, è anche coraggio.

    Il calcio del 2025 può ancora essere più di un gioco o di uno spettacolo, ma per riuscirci, deve smettere di fare da tappezzeria ai salotti del potere. Anche a costo di perdere qualche applauso.
    Anche a costo di dire: “No, grazie.”

    Perché a volte, nella storia, il gesto più nobile è proprio quello di non esserci

  • EcoSportivamente — In dialogo con Marianna Pavan

    EcoSportivamente — In dialogo con Marianna Pavan

    C’è uno sport che corre veloce sui campi, che emoziona con i gol, che accende le piazze. Ma ce n’è un altro – forse meno visibile, ma altrettanto potente – che attraversa scuole, comunità, territori, trasformandosi in un linguaggio universale capace di educare, includere, immaginare. Ed è proprio questo sport che raccontiamo nella nuova puntata di EcoSportivamente, insieme a Marianna Pavan, ricercatrice, formatrice e docente alla Manchester Metropolitan University.

    Con un percorso accademico che unisce Padova, Londra ed Edimburgo, e un’esperienza sul campo maturata tra enti internazionali e progetti locali, ha scelto di lavorare proprio lì dove sport e società si incontrano. Il suo impegno è orientato a rendere lo sport uno strumento di cittadinanza, giustizia e sostenibilità, capace di rispondere alle grandi sfide del nostro tempo.

    Marianna Pavan: lo sport che include, educa e cambia i territori

    In questa puntata, la Professoressa Marianna Pavan ci racconta come sia possibile trasformare il modo in cui pensiamo lo sport, partendo dalle comunità e dai territori. Lo sport, come emerge dai suoi progetti, è capace di promuovere diritti umani e uguaglianza, sostenere iniziative ambientali e sociali, creare connessioni tra culture e generazioni diverse.

    Insomma molto più di una disciplina: è uno strumento politico e culturale, un’occasione per costruire legami, un luogo in cui la cittadinanza può prendere corpo e un linguaggio che può aiutare a immaginare mondi più giusti, più verdi, più inclusivi.

    Marianna ci accompagna in un viaggio che parte dalla sua esperienza sul campo con organizzazioni internazionali, federazioni sportive e realtà educative, fino ad arrivare al cuore del suo pensiero: lo sport come spazio trasformativo. Non è solo il luogo in cui si imparano regole, ma un laboratorio di convivenza. Lo sport è veicolo di apprendimento, cittadinanza e sostenibilità.

    L’approccio dell’Education Through Sport rompe gli schemi tradizionali e mette al centro il corpo, il gioco, il gruppo. L’educazione diventa esperienziale, accessibile, viva.

    Ma lo sport, ci ricorda, non può essere separato dai territori in cui si radica. Le storie locali, i percorsi “dal basso”, le realtà di quartiere sono il terreno più fertile per costruire un cambiamento duraturo. Non bastano grandi eventi o parole altisonanti: servono luoghi vivi, accessibili, partecipati. Luoghi in cui ogni persona – indipendentemente dalla propria condizione – possa sentirsi parte di un gioco comune.

    E allora, che forma avrebbe una città ideale pensata a partire dallo sport? Sicuramente sarebbe un posto dove l’accessibilità è reale, concreta, garantita. Perché lo sport può e deve essere per tutti.

    🎙 Ascolta l’intervista completa sul podcast EcoSportivamente e scopri come lo sport possa essere davvero uno strumento di trasformazione sociale, ambientale ed educativa.

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  • Referendum: perchè partecipare e votare Sì

    Referendum: perchè partecipare e votare Sì

    Cinque quesiti, una sola direzione: dare più potere a chi oggi ne ha meno. È questo il cuore della questione. Ed è per questo che votare SÌ è una scelta che guarda a una società più giusta e più democratica. L’8 e il 9 giugno saremo chiamati a esprimerci su cinque referendum abrogativi che toccano la vita quotidiana di milioni di persone perchè riguardono temi come il lavoro e la cittadinanza.

    Perchè è importante partecipare?

    In un tempo in cui la politica sembra distante, partecipare è l’unico antidoto alla rassegnazione. Scegliere di votare è prima di tutto un gesto di libertà. L’articolo 1 della nostra Costituzione ci dice che la sovranità appartiene al popolo: ma appartiene davvero solo se viene esercitata. Se non partecipiamo, se rinunciamo a dire la nostra, quella sovranità si dissolve. Non scompare dalla Carta, ma evapora dalla realtà. Non si vota per un partito. Non si sceglie un governo. Si vota prima di tutto per far sentire la propria voce.

    SCHEDA VERDEVOTARE SÌ. Licenziamento illeggittimo e contratti a tutele crescenti.

    Di cosa si parla?

    Il referendum propone di abrogare (cioè cancellare) il decreto legislativo n. 23 del 4 marzo 2015, uno dei provvedimenti principali del cosiddetto Jobs Act, introdotto durante il governo Renzi. Questo decreto ha creato una nuova forma di contratto a tempo indeterminato, chiamato “a tutele crescenti”, valido per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi, nelle aziende con più di 15 dipendenti.

    Cosa ha cambiato il Jobs Act?

    Prima del 2015, se un lavoratore veniva licenziato senza una giusta causa o senza giustificato motivo, aveva diritto – in molti casi – a essere reintegrato nel suo posto di lavoro, come previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Con il Jobs Act, invece, il reintegro è diventato un’eccezione. Nella maggior parte dei casi, chi viene licenziato illegittimamente riceve solo un’indennità economica (cioè un risarcimento in denaro), calcolata in base all’anzianità di servizio, ma non torna al lavoro. Questa riforma ha indebolito fortemente le tutele per i lavoratori.

    Cosa chiede il referendum?

    Il referendum chiede di abrogare il decreto del 2015 e di tornare alla disciplina precedente, quella più favorevole al lavoratore. In pratica:

    • In caso di licenziamento illegittimo, il giudice potrà ordinare il reintegro nel posto di lavoro (non solo un risarcimento).
    • Si ristabilisce l’impianto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, prima della riforma del Jobs Act.
    • Le tutele tornerebbero uguali per tutti i lavoratori a tempo indeterminato, indipendentemente dalla data di assunzione.

    Chi è coinvolto?

    Il quesito riguarda milioni di lavoratori assunti dal 2015 in poi, che oggi non godono delle stesse protezioni di chi è stato assunto prima. Colpiti in particolare:

    • Tutti i lavoratori a tempo indeterminato post-2015;
    • Le aziende con più di 15 dipendenti;
    • Il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, che diventerebbe più equilibrato.

    Perché votare ?

    Votare SÌ sulla scheda verde significa voler ripristinare un diritto fondamentale del lavoratore: quello di essere reintegrato se viene licenziato ingiustamente.

    SCHEDA ARANCIONE – PERCHE’ VOTARE Sì – Tutele contro i licenziamenti nelle piccole imprese

    Di cosa si parla?

    Il quesito riguarda i lavoratori delle piccole aziende, cioè quelle con meno di 16 dipendenti. Oggi questi lavoratori, se licenziati senza una giusta causa o senza giustificato motivo, non possono essere reintegrati e hanno diritto a una indennità economica limitata.

    La legge attuale (nello specifico l’articolo 8 della legge 604/1966) fissa un tetto massimo all’indennità, che non può superare sei mensilità di stipendio, anche nei casi più gravi.

    Cosa propone il referendum?

    Il quesito propone di abrogare questo limite. Se vince il , non ci sarà più un tetto fisso e l’indennità sarà decisa dal giudice, caso per caso, tenendo conto di vari fattori:

    • La gravità dell’ingiustizia del licenziamento;
    • L’età del lavoratore;
    • I suoi carichi familiari;
    • Le condizioni economiche dell’azienda.

    In questo modo, chi viene licenziato ingiustamente in una piccola azienda potrà ricevere un risarcimento più equo e proporzionato al danno subito.

    Perché è importante?

    Oggi esiste una disparità evidente tra lavoratori di grandi aziende e quelli di piccole imprese. Chi lavora in una ditta con meno di 16 dipendenti ha meno diritti, anche quando viene licenziato senza motivo valido. Questo referendum vuole ridurre questa ingiustizia.

    Perché votare ?

    Votare SÌ sulla scheda arancione significa dire che la giustizia e la dignità valgono per tutti, anche nelle piccole aziende. È un passo per rendere il lavoro davvero tutelato, per tutti, e non una condizione di debolezza permanente.

    SCHEDA GRIGIA- PERCHE’ VOTARE Sì – Contro l’abuso dei contratti a tempo determinato

    Di cosa si tratta?

    Il quesito propone di abrogare una parte del Jobs Act che consente alle aziende di assumere lavoratori a tempo determinato per un massimo di 12 mesi senza dover indicare alcun motivo. In altre parole, oggi un’azienda può usare il contratto a termine anche se non c’è alcuna necessità reale, senza darne conto a nessuno, nemmeno davanti a un giudice.

    Questa flessibilità totale ha creato un uso esteso e spesso abusivo del lavoro precario: secondo la CGIL, oltre 2 milioni di lavoratori sono coinvolti.

    Cosa cambierebbe se vince il ?

    Votando SÌ si reintroduce l’obbligo della causale: cioè, un datore di lavoro dovrà giustificare per iscritto perché sta usando un contratto a termine e non uno stabile (a tempo indeterminato).

    Le “causali” ammesse potrebbero essere, ad esempio:

    • picchi di produzione stagionali;
    • sostituzioni temporanee;
    • attività eccezionali o sperimentali.

    Se l’azienda non ha un motivo valido, non potrà utilizzare un contratto a tempo determinato. E il giudice potrà valutarne la legittimità.

    Perché è importante?

    Il lavoro a termine dovrebbe servire per situazioni eccezionali, non per coprire posti di lavoro stabili con lavoratori precari, ricattabili e privi di diritti. Eliminando la causale, il Jobs Act ha aperto la porta a un uso sistematico e indiscriminato di questi contratti.

    Votare SÌ significa ridare dignità e stabilità al lavoro.

    Perché votare

    Votare SÌ sulla scheda grigia significa dire basta alla precarietà senza regole. È una scelta per un lavoro più giusto, stabile, dignitoso.

    SCHEDA MAGENTA – PERCHE’ VOTARE Sì – Più responsabilità per chi appalta. Più tutela per i lavoratori.

    Di cosa si tratta?

    Questo quesito chiede di rafforzare le tutele per i lavoratori in caso di infortuni o malattie professionali, aumentando la responsabilità dell’imprenditore che affida un appalto (cioè il committente).

    Oggi la legge dice che il committente è responsabile solo in certi casi, e può sottrarsi alla responsabilità se l’infortunio deriva da un rischio tipico dell’attività dell’appaltatore o del subappaltatore.

    Questa eccezione è un modo per scaricare le colpe e sfuggire alla responsabilità civile in molti incidenti sul lavoro.

    Cosa cambierebbe se vince il ?

    Votando SÌ si cancella l’esclusione di responsabilità per i rischi tipici dell’appaltatore, rendendo il committente sempre corresponsabile, insieme all’appaltatore e ai subappaltatori, nei casi di infortuni o malattie professionali in assenza di copertura assicurativa (INAIL o IPSEMA).

    In pratica:

    • L’imprenditore che affida i lavori non potrà più lavarsene le mani.
    • Avrà interesse a controllare davvero che sicurezza e tutele siano rispettate lungo tutta la catena degli appalti.
    • I lavoratori non resteranno più soli nel chiedere giustizia.

    Perché è importante?

    Troppi incidenti sul lavoro avvengono in condizioni precarie, soprattutto negli appalti e subappalti, dove la sicurezza viene spesso sacrificata per il risparmio.

    Dare una responsabilità diretta anche al committente significa mettere pressione su chi prende decisioni e prevenire gli incidenti prima che avvengano.

    Chi ha il potere economico non può essere anche quello che sfugge più facilmente alle responsabilità.

    Perché votare ?

    📌 Votare SÌ sulla scheda viola significa stare dalla parte della vita, della giustizia, della responsabilità. Una democrazia che si rispetti non può tollerare che il profitto venga prima della sicurezza sul lavoro.

    SCHEDA GIALLA – PERCHE’ VOTARE Sì – Cittadinanza dopo 5 anni: più diritti, più dignità, più Italia.

    Di cosa si tratta?

    Il referendum propone di ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale continuativa in Italia necessario per poter richiedere la cittadinanza italiana. Oggi, anche se la legge parla di 10 anni, la realtà è che tra burocrazia e attese si arriva spesso a 13 anni o più prima di diventare cittadini a tutti gli effetti. Il referendum vuole correggere questa ingiustizia.

    Cosa cambierebbe se vince il ?

    • Dopo 5 anni di vita regolare in Italia, una persona potrà presentare la domanda di cittadinanza;
    • Non cambia nulla sugli altri requisiti (conoscenza della lingua, reddito stabile, assenza di reati);
    • La cittadinanza ottenuta potrà essere trasmessa ai figli minorenni.

    Chi riguarda?

    • Oltre 2 milioni di persone, molte delle quali vivono, lavorano e pagano le tasse in Italia da anni;
    • Giovani che sono cresciuti qui, che parlano italiano e si sentono italiani, ma che oggi vivono da stranieri in casa propria;
    • Famiglie che da troppo tempo aspettano riconoscimento e pari diritti.

    Perché è importante?

    • Perché cittadinanza è appartenenza, non concessione;
    • Perché chi vive qui stabilmente, rispetta le regole, contribuisce alla società, deve poter avere voce;
    • Perché inclusione è sicurezza, è democrazia, è coesione sociale;
    • Perché troppe persone vivono in una zona grigia di diritti negati, pur essendo pienamente parte della nostra comunità.

    Perché votare ?

    📌 Votare SÌ sulla scheda grigia significa dire che chi vive qui, lavora qui, cresce qui, è parte dell’Italia. E ha diritto di essere riconosciuto come tale. Una democrazia non può restare cieca davanti a milioni di vite invisibili.

    LINK UTILI

    https://www.ilpost.it/2025/05/05/guida-referendum-8-9-giugno/

    https://partitodemocratico.it/8-e-9-giugno-5-si-ai-referendum-su-lavoro-e-cittadinanza

    https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/i-cinque-referendum-di-fronte-a-noi-ragioni-per-votare-si

  • Mujica ci ha insegnato che vivere è più importante che possedere

    Mujica ci ha insegnato che vivere è più importante che possedere

    È con profonda tristezza che il mondo dice addio a José “Pepe” Mujica, l’ex presidente dell’Uruguay che ha lasciato un’impronta indelebile non solo nella storia del suo paese, ma nella coscienza collettiva globale. Un uomo che ha trasformato la semplicità in una rivoluzione e la sua vita in un potente messaggio per l’umanità.

    Uno dei pochi politici capaci di incarnare fino in fondo una filosofia di vita radicata nella coerenza, nella sobrietà, nella libertà.

    Jose “Pepe” Mujica: Il rivoluzionario diventato statista

    Il percorso di Mujica è stato straordinario quanto improbabile. Da guerrigliero Tupamaro a prigioniero politico fino a diventare presidente di quella stessa nazione che lo aveva imprigionato. Ma ciò che lo ha reso davvero unico è stato il rifiuto di trasformarsi in ciò contro cui aveva combattuto.

    Durante la sua presidenza (2010-2015), mentre altri leader mondiali vivevano nei palazzi del potere, Mujica continuava ad abitare nella sua modesta fattoria alla periferia di Montevideo, guidava una vecchia Volkswagen Maggiolino e donava il 90% del suo stipendio presidenziale. Non era una strategia di comunicazione, ma l’autentica espressione di una filosofia di vita che ha definito “l’austerità che libera”. Quando parlava, ogni parola sembrava un seme lanciato nella terra dell’umanità, nella speranza che qualcosa – un pensiero, un dubbio, una ribellione – potesse germogliare.

    La rivoluzione della sobrietà

    “La mia forma mentis è quella di un contadino vecchio stile”, amava ripetere. Eppure, da questo apparente anacronismo, Mujica ha estratto una saggezza profondamente attuale. In un mondo ossessionato dal consumo compulsivo, la sua voce roca ricordava che “essere poveri non è avere poco, ma desiderare infinitamente di più”.

    La sua critica al modello di sviluppo globale non era ideologica ma esistenziale: “Abbiamo inventato un modello di civilizzazione dove stiamo sacrificando la vita al consumo. La vera libertà non è possedere, ma avere tempo.

    Vi pongo una domanda: cos’è la libertà? La mia definizione casereccia, da vecchio, è la seguente: sono libero quando spendo il tempo della mia vita in ciò che mi piace. Per uno sarà una cosa, per un altro un’altra, ma finché dovrò lottare per i bisogni materiali, per sostenere la mia vita, non sarò libero, sarò sottomesso alla legge della necessità.

    Quando faccio con il tempo della mia vita quel che mi piace – dormire sotto un albero, giocare a calcio, leggere un romanzo o ascoltare un concerto, è un fatto personale – allora sono me stesso, mentre non lo sono quando resto sottomesso alla legge della necessità. Pertanto posso aumentare la mia libertà avendo maggior quantità di tempo, così da spendere parte della mia vita nelle cose che mi motivano. Se dunque lasciamo astratto il concetto di libertà, non riusciamo a trasmettere la battaglia personale che tutto questo implica.

    Credo che gli esseri umani, essendo animali sociali, debbano lavorare e dare un apporto alla società in cui ci è toccato vivere, altrimenti sarebbero parassiti. La nostra vita, però, non è stata fatta solo per lavorare, è stata fatta per vivere, cosa per cui è necessario avere tempo da impegnare in quello che c’è di fondamentale: tempo per gli amici, tempo per l’amore, tempo per l’avventura. Perché? Perché l’orologio della vita scorre e il tempo scivola via.

    Credo che possiamo guarire la nostra civiltà solo cercando di dare risposta a tali questioni. Non chiediamoci al mercato di risolverle, non è stato fatto per questo. È piuttosto una questione d’organizzazione umana e, come tale, un tema per la politica più alta.

    Durante il suo mandato ha promosso politiche progressiste che hanno fatto dell’Uruguay un laboratorio di diritti civili: dalla legalizzazione della marijuana alla regolamentazione dell’aborto e del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ma il suo vero contributo è stato molto più profondo: ha dimostrato che si può governare senza rinunciare all’umanità, ai propri valori e alla propria autenticità.

    Il Presidente Mujica: le politiche e la visione

    Nel panorama politico contemporaneo, dominato da tecnocrati distanti dalla realtà quotidiana o da populisti che sfruttano le paure collettive, Mujica ha rappresentato una terza via: quella dell’autenticità. “Il potere è come bere da un bicchiere d’acqua. Se è troppo grande, ti cade dalle mani”, ammoniva.

    La sua presidenza ha dimostrato concretamente che un’altra politica è possibile – una politica che non si fonda sulla manipolazione ma sul dialogo sincero, non sulla contrapposizione ma sulla ricerca del bene comune. Mujica ha trasformato la vulnerabilità in forza, ammettendo pubblicamente i propri errori e limiti: “Non sono un messia, sono pieno di difetti, come tutti”.

    In un’epoca in cui i politici tendono a presentarsi come esseri infallibili, la sua onestà intellettuale rappresentava una ventata d’aria fresca. Non offriva soluzioni miracolose, ma invitava a una riflessione collettiva: “Non possiamo risolvere i problemi con lo stesso pensiero che li ha creati”.

    Il suo approccio alla politica rifiutava la logica del “noi contro loro” per abbracciare una visione inclusiva: “Non odio i ricchi, ma mi domando fino a quando continueremo ad accumulare a spese degli altri”. In un mondo polarizzato, la sua capacità di dialogare con tutti senza compromettere i propri principi resta un esempio raro e prezioso.

    Un uomo del suo tempo e oltre il suo tempo

    Guardando alla sua vita straordinaria, ciò che colpisce di più è come un uomo nato in una famiglia di contadini poveri, che ha attraversato alcune delle pagine più buie della storia latinoamericana, sia riuscito a emergere non con risentimento ma con saggezza, non con sete di vendetta ma con un messaggio di moderazione e umanità.

    In un’epoca di politica polarizzata, di discorsi infuocati e di promesse grandiose, Mujica ha ricordato il valore della semplicità, dell’onestà e della coerenza. Ha dimostrato che si può essere rivoluzionari senza violenza, radicali senza estremismo, e che la più grande forma di leadership è quella che riconosce la propria comune umanità.

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  • Give Back: come lo sport restituisce valore alla società | EcoSportivamente Podcast

    Give Back: come lo sport restituisce valore alla società | EcoSportivamente Podcast

    Give Back: storie di calcio responsabile

    Sono felice di presentarvi la seconda puntata della nuova stagione di EcoSportivamente, il podcast dove lo sport incontra la sostenibilità, il cambiamento e l’impatto positivo.

    Il nostro ospite è Mario Rucano, esperto di Corporate Social Responsibility e co-autore del libro Give Back – 11 storie di calcio socialmente responsabile, scritto insieme a Stefano D’Errico e Valentino Cristofalo, già ospiti del podcast.

    In questa puntata, esploriamo il significato profondo del “Give Back”: quel gesto consapevole con cui atleti, spesso sotto i riflettori, decidono di usare la loro visibilità per restituire qualcosa alla società, ai territori e alle cause in cui credono.

    Con Mario abbiamo parlato di:

    • Come nasce il suo impegno per la sostenibilità nello sport
    • Le sfide (e i rischi) della CSR tra impatto reale e greenwashing
    • Le storie più sorprendenti emerse nella scrittura di Give Back
    • Il futuro del “give back” nello sport tra dieci anni
    • Il ruolo trasformativo degli atleti, e in particolare delle donne, nella società contemporanea

    Un momento speciale è dedicato alle storie di Sara Gama e Megan Rapinoe, due figure potenti che dimostrano come il talento sportivo possa trasformarsi in attivismo, ispirazione e battaglie civili.

    Una puntata da ascoltare tutto d’un fiato, tra etica e pallone, dove si parla anche di messaggi lasciati negli spogliatoi, consigli ricevuti lungo la strada e futuro da costruire, un “pezzettino” alla volta. In un momento storico in cui lo sport viene spesso semplificato in numeri e spettacolo, storie come quelle raccontate in questa puntata ci ricordano che ogni atleta può essere anche un cittadino attivo, una voce per il cambiamento

    Ascolta ora su [Spotify ]
    Scopri il libro “Give Back”

    EcoSportivamente è una comunità

    Se ti piace, aiutami a condividerlo! Lo sport può davvero cambiare il mondo, ma solo se scegliamo insieme di fare la differenza.

    Hai una storia di sport e sostenibilità da raccontare? Scrivici nei commenti o contattaci sui social.
    EcoSportivamente è una comunità, non solo un podcast

  • Al Lebowski, dove il calcio è resistenza e sogno

    Al Lebowski, dove il calcio è resistenza e sogno

    Diez incontra il Centro Storico Lebowski

    Il calcio non è solo un gioco. È un atto collettivo di resistenza.

    Il Centro Storico Lebowski è nato così, nel 2004, per scelta e per sogno. Un gruppo di amici, stanchi di vedere il calcio ridotto a spettacolo da consumare, ha deciso di cambiare le regole del gioco: creare una squadra dal basso, fuori dalle logiche di profitto, fuori dal calcio business.

    Una squadra dove chi ama il pallone non è spettatore, ma protagonista. Una squadra dove ogni decisione è democratica, condivisa, partecipata. Un’idea semplice e allo stesso tempo rivoluzionaria: restituire il calcio a chi lo vive, non a chi lo compra.

    Oggi il Lebowski è molto più di una squadra. È una comunità. È una scuola calcio popolare, nata in un giardino pubblico, cresciuta tra fatica, passione e coraggio.
    Un luogo dove bambini e bambine possono giocare senza barriere economiche, grazie a prezzi popolari e a un modello educativo che mette al centro la persona prima ancora dell’atleta. Sul campo del Lebowski, la fantasia è ancora un diritto e non un lusso. Lo sport è cultura. È educazione. È un modo per costruire possibilità.

    Al Leboski un altro calcio esiste già

    Con Diez: l’Atlante dei numeri 10, ho provato a raccontare proprio questo spirito: il calcio come sogno, immaginazione, poesia.

    Siamo partiti dai pionieri della fantasia come Johan Cruijff e Paul Gascoigne, abbiamo attraversato le traiettorie magiche di Zico e Juan Román Riquelme, siamo arrivati alle storie africane di Lakhdar Belloumi e Jay-Jay Okocha.
    Abbiamo chiuso il cerchio con chi ha fatto del sogno un patrimonio dell’umanità: Roberto Baggio, Pelé e Diego Armando Maradona. In ogni storia, un filo rosso: il calcio non è solo vittoria o sconfitta.
    È il diritto di sognare con i piedi, come ci ha insegnato Eduardo Galeano.

    Sabato, al Lebowski, abbiamo visto quei sogni camminare sulla terra. Abbiamo respirato un calcio diverso: libero, collettivo, popolare. Abbiamo capito che un altro calcio non solo è possibile: esiste già.

    E continua a crescere, ogni volta che qualcuno ha il coraggio di credere che un pallone, calciato con fantasia, possa cambiare il mondo.

  • La portata universale di Papa Francesco

    La portata universale di Papa Francesco

    Perché è stato così importante Papa Francesco? L’eredità sociale, culturale e morale del pontefice venuto “dalla fine del mondo”

    Papa Francesco lascia un segno indelebile nel terzo millennio dell’umanità. È stato un pontefice capace di parlare al mondo intero, credenti e non, incarnando valori universali come la giustizia, la solidarietà e la cura del creato. Perché Papa Francesco è stato così importante? Non solo per il suo ruolo spirituale, ma per la sua influenza etica e sociale, che ha travalicato i confini del Vaticano.

    Il difensore dei migranti in un’epoca di muri

    In un periodo storico segnato dall’innalzamento di barriere fisiche e ideologiche, Francesco ha costantemente richiamato l’attenzione sulla “globalizzazione dell’indifferenza”. La sua visita a Lampedusa nel 2013, primo viaggio ufficiale del suo pontificato, ha segnato simbolicamente l’inizio di un impegno instancabile. “Chi piange per queste persone morte nel tentativo di migliorare le proprie condizioni?”, chiedeva allora, ponendo una domanda scomoda ai leader politici europei e mondiali.

    Non si è limitato alla denuncia: il suo appello “accogliere, proteggere, promuovere e integrare” è diventato un punto di riferimento per organizzazioni umanitarie e istituzioni. Ha criticato apertamente le politiche migratorie restrittive, sfidando le posizioni di governi e partiti populisti, e trasformando la questione dei migranti da problema di sicurezza nazionale a imperativo morale universale.

    La voce dell’ecologia integrale

    Con l’enciclica “Laudato Si’” del 2015, Papa Francesco ha compiuto un passo storico: il primo documento papale interamente dedicato alle questioni ambientali. La sua “ecologia integrale” ha collegato in modo innovativo la crisi climatica alle disuguaglianze sociali, offrendo una critica sistemica dell’attuale modello economico.

    Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale”, scriveva, anticipando dibattiti che sarebbero diventati centrali negli anni successivi. Questo approccio ha influenzato accordi internazionali sul clima e ispirato movimenti ambientalisti globali. La sua visione ha saputo parlare tanto ai leader mondiali quanto alle giovani generazioni impegnate nell’attivismo climatico.

    La lotta intransigente contro le mafie

    “Non si può credere in Dio ed essere mafiosi”, ha dichiarato Francesco con fermezza davanti alla tomba di don Pino Puglisi. Il suo impegno contro la criminalità organizzata è stato caratterizzato da gesti simbolici potenti e da parole inequivocabili. La scomunica pronunciata durante la visita in Calabria nel 2014 ha rappresentato una svolta storica nel rapporto tra Chiesa e mafie.

    Francesco ha denunciato non solo la violenza mafiosa, ma anche la “cultura mafiosa” fondata sulla corruzione e sul clientelismo. Ha sostenuto attivamente chi combatte le organizzazioni criminali, visitando territori difficili e incontrando familiari delle vittime, trasformando così la lotta alle mafie in una battaglia culturale e morale che travalica i confini dell’Italia.

    Lo sport come strumento di inclusione

    Meno noto ma significativo è stato il suo approccio allo sport, visto non come competizione ma come strumento di pace e inclusione sociale. Ha promosso iniziative come “Scholas Occurrentes” e incontri interreligiosi attraverso eventi sportivi, sottolineando come l’attività fisica possa superare barriere culturali, economiche e religiose.

    “Lo sport è una scuola di pace, ci insegna a costruire la pace”, ha ripetuto in diverse occasioni, promuovendo i valori della lealtà e del rispetto reciproco in un’epoca segnata da crescenti tensioni sociali e internazionali.

    E’ stato, inoltre, il papa Tifoso come ci ha ricordato Fabrizio Gabrielli su Ultimo Uomo.

    ” Forse proprio perché, ricco della sua forma mentis argentina, Bergoglio sente – ha sempre sentito – la tentazione di spiegare il mondo attraverso paradigmi calcistici. Di portare la religione fuori dalla religione, nei potreros della vita, tra i diseredati, tra i meno felici, tra quelli ai quali basta un pallone, o un pezzo d’ostia, da farsi bastare per essere un po’ meno tristi, un po’ meno soli. Ha identificato nel pallone un tramite. Un legame ”

    L’ultimo messaggio di Speranza

    Sono vicino alle sofferenze dei cristiani in Palestina e in Israele, così come a tutto il popolo israeliano e a tutto il popolo palestinese. Preoccupa il crescente clima di antisemitismo che si va diffondendo in tutto il mondo. In pari tempo, il mio pensiero va alla popolazione e in modo particolare alla comunità cristiana di Gaza, dove il terribile conflitto continua a generare morte e distruzione e a provocare una drammatica e ignobile situazione umanitaria. Faccio appello alle parti belligeranti: cessate il fuoco, si liberino gli ostaggi e si presti aiuto alla gente, che ha fame e che aspira ad un futuro di pace!». E sul tema immigrazione ha aggiunto: «Quanta volontà di morte vediamo ogni giorno nei tanti conflitti che interessano diverse parti del mondo! Quanta violenza vediamo spesso anche nelle famiglie, nei confronti delle donne o dei bambini! Quanto disprezzo si nutre a volte verso i più deboli, gli emarginati, i migranti!».

    Papa Francesco: un’eredità che supera i confini religiosi

    Il “Papa venuto dalla fine del mondo” ha saputo incarnare un nuovo modello di leadership globale: umile nei gesti, diretto nel linguaggio, intransigente sui principi ma aperto al dialogo con tutti. La sua capacità di parlare ai non credenti, di affrontare temi controversi e di richiamare le istituzioni alle proprie responsabilità ha ridefinito il ruolo del papato nel XXI secolo.

    L’eredità di Francesco va ben oltre il recinto ecclesiastico: ha offerto una visione alternativa di società fondata sulla solidarietà, sulla sostenibilità e sulla dignità umana. In un’epoca di crescente polarizzazione, ha rappresentato una voce che ha saputo unire rigore morale e compassione, tradizione e innovazione, principi non negoziabili e pragmatismo.

    La sua scomparsa lascia un vuoto ma per tutti coloro che hanno visto in lui un riferimento etico in tempi complessi.

  • Il Calcio a scuola: quando lo sport accende la curiosità

    Il Calcio a scuola: quando lo sport accende la curiosità

    Il calcio a scuola: L’Atlante dei numeri 10 presso l’I.I.S Cesare Baronio di Sora

    Che sarebbe stata una mattinata speciale, l’ho capito appena varcato l’ingresso dell’istituto. Davanti a me, un’onda colorata di magliette da calcio. Una giornata di calcio a scuola.
    I ragazzi e le ragazze mi hanno accolto con entusiasmo contagioso, occhi accesi dalla curiosità, animi carichi di energia. In quel momento ho capito che non avremmo solo parlato di calcio, ma che avremmo vissuto insieme una piccola avventura emotiva e culturale.

    L’accoglienza in auditorium è stata sorprendente: un’atmosfera vibrante, quasi da Bombonera, tra applausi e sorrisi.
    La moderazione della prof.ssa Capobianco è stata appassionata e coinvolgente: pur non essendo un’esperta di calcio, si è lasciata trasportare – e in parte rapire – dalle storie dei Diez, i numeri 10 che hanno fatto la storia di questo sport.

    Un viaggio tra diez, storia e valori

    Abbiamo esplorato il cuore del progetto: il talento e la disciplina, la poesia e la lotta, le contraddizioni e la bellezza di chi porta il numero 10 sulle spalle.

    Ci siamo immersi nella grazia e nella ferocia di Zinedine Zidane, nella spiritualità silenziosa di Roberto Baggio, capace di convivere con il dolore e di sublimarlo. Abbiamo riflettuto sul tormento e il genio di Paul Gascoigne, sulle sue fragilità celate dietro l’immagine del campione. E poi ancora, la determinazione zen di Hidetoshi Nakata, capace di trasformare ogni partita in una forma di meditazione.

    Non è mancata una riflessione più ampia sul tifo: sul suo potere unificante, ma anche sul rischio di derive violente e sul vuoto che, a volte, riempie con disvalori la solitudine di chi cerca appartenenza.

    Oltre ai video e ai contenuti multimediali – realizzati in modo impeccabile – sono state le domande a rendere l’incontro davvero speciale. Tantissimi interventi, osservazioni acute, curiosità profonde. Due ore non sono bastate. I ragazzi, veri numeri 10, avrebbero continuato fino al tramonto.

    Sono tornato a casa con un’ondata di energia positiva e con la gratitudine di aver acceso una scintilla, di aver condiviso non solo storie di calcio, ma anche valori, emozioni, visioni di vita.

    Un grazie sentito per l’accoglienza calorosa, l’entusiasmo e la splendida opportunità di confronto.
    Nota finale, ci siamo salutati sulle note di “Live is Life”: e forse, davvero, la vita è questo. Un gioco, un racconto, una partita da giocare insieme. Il calcio a scuola è davvero un bel esperimento perchè è un altro modo di raccontare il mondo.

    Buon vento, campioni.

    Le Foto dell’iniziativa

    Il reel dell’iniziativa