San Giovanni Incarico: il consiglio comunale del 8 settembre

Consiglio Comunale San Giovanni Incarico

Dopo la pausa estiva, martedì 8 settembre si è riunito il Consiglio Comunale di San Giovanni Incarico. Il consiglio è stato richiesto dai Consiglieri di Minoranza: Bortone, Carbone e Toti.

Gli odg della discussioni sono visualizzabili, cliccando sul link sottostante

Come potete osservare si tratta di punti aperti che non necessitano, quindi, di una votazione ma di una discussione aperta in aula.

Organizzazione Spazi Scolastici

Il primo punto di discussione riguardava l’organizzazione degli spazi scolastici. Prima di tutto, ho ritenuto fondamentale non alimentare ulteriori elementi di confusione in un quadro che, dal livello nazionale al livello locale, risulta essere frammentato ed in continua evoluzione. Politicamente Primavera Sangiovannese ha sempre cercato di favorire una piena autonomia dell’istituzione scolastica, tenendola ben fuori dall’agone politico. Sull’argomento, ho chiesto quale fosse la posizione del nostro Comune, nell’incontro tra i dirigenti scolastici e i Primi Cittadini del plesso ( San Giovanni Incarico, Pontecorvo, Pico), previsto l’indomani. Il Sindaco Fallone, ha risposto che il Comune di San Giovanni Incarico, aveva ultimato i lavori di adeguamento necessari ma avrebbe lavorato per una scelta collettiva. Come tutti sapranno si è optato per un rinvio dell’apertura delle scuole.

Non ho avallato la richiesta di Istituzione di una commissione ad hoc sul tema scuola, relazionata dal Consigliere Toti, perché pur condividendo la natura di questa proposta, non è stato presentato alcun documento sulla struttura e sul funzionamento della stessa,se non dei generici intenti. Vivendo un periodo delicato e dovendo essere l’azione politica sull’istruzione particolarmente rapida, chiara ed efficace, non ho ritenuto utile richiedere , in questa occasione, una votazione sulla proposta. Nulla vieta, ovviamente, che si possa in futuro giungere ad una proposta strutturata da sottoporre al Consiglio Comunale, al quale sicuramente non farò mancare il mio appoggio e supporto.

Cosa fare dell’ex scuola Pasquale Cayro?

Ho sottolineato prima di tutto la pessima esperienza vissuta dall’Associazione Culturale che presiedevo. 6 anni fa siamo stati invitati a liberare la sede che ci era stata concessa, entro una settimana, a causa dell’inagibilità della struttura. Era la settimana di ferragosto. Tempi e metodi di una certa politica.

Detto questo ho sottolineato come numeri alla mano non sia funzionale pensare a quella struttura come nuovo edificio scolastico. Quell’edificio, una volta messo in sicurezza, potrebbe essere invece utilissimo ad aiutare le associazione del territorio,una sorta di “Casa dell’associazionismo locale”. In più, viste le esigenze di molti lavoratori, sarebbe molto interessante creare degli spazi di co-working, lavoro condiviso. La crescita esponenziale dello smart working è una chiave per rivitalizzare i borghi e generare entrate per le attività commerciali. Una grande occasione che dobbiamo essere in grado di sfruttare.

Il primo cittadino ha risposto che l’idea era certamente interessante ma l’edificio, a breve, diventerà un centro diocesano.

Contributi a Fondo Perduto ai commercianti

Come si potrebbe essere concettualmente contro ad una misura di questo genere? Ovviamente, però, bisogna coniugare la proposta con l’equilibrio delle finanze comunali, tema a cui ho sempre prestato una rigorosa attenzione. Ho chiesto al Consigliere Carbone, relatore della stessa, se era già stata pensata una somma da destinare ai commercianti. Mi è stato risposto negativamente e che questo onere, a suo avviso, spettava alla maggioranza. Facendo un conto, di massima, sulla natura dell’impegno, ritengo che per essere efficace, dovrebbe essere stimato in almeno 60.000,00 €, una cifra certamente importante per le casse, non floride, di San Giovanni Incarico.

Su questo punto mi piacerebbe lanciare un’idea: non sarebbe interessante capire di cosa hanno bisogno le aziende/attività commerciali presenti sul tessuto comunale, stilare una lista delle priorità ed investire questo denaro in investimenti su strutture, eventi ed infrastrutture fisiche e digitali? A mio avviso, inoltre, non è più rinviabile, la creazione di uno sportello dedicato alle opportunità di finanziamento delle imprese.

Installazione traliccio telefonico Madonna della Guardia

Su questo argomento, al di là del caos che si è generato e delle vere e proprie liti di questi giorni, sostengo a nome del mio gruppo una cosa molto semplice: Primavera Sangiovannese è contro nuove installazioni di questo genere, a qualsiasi prezzo offerto dal gestore, nelle immediate vicinanze di un luogo di culto così importante per la popolazione sangiovannese.Riteniamo, inoltre, che si debba risolvere al più presto la controversia legale per i ripetitori già presenti e procedere con un piano di pianificazione urbanistica avente lo scopo di pianificare e minimizzare i valori di campo elettromagnetico, ove necessario.

Nel corso di questi 3 anni di attività consiliare, ho incrociato quest’argomento nella Primavera del 2018, durante l’approvazione del bilancio di Previsione. Ho chiesto più volte chiarimenti, senza fortuna, sull’evidenza che vedete in immagine. Sfruttando l’occasione, ho chiesto direttamente chiarimenti al Consiglio.

Il primo cittadino ha sostenuto che l’aumento di entrate fosse motivato dal risarcimento derivante l’ipotetica vittoria della causa riguardante il traliccio attualmente presente sul Santuario della Madonna della Guardia, utilizzato dall’emittente Teleuniverso. Spiegazione che a dir la verità non ci lascia convintissimi, poiché, o è stato redatto in maniera poco chiara il testo a corredo del documento contabile o si rafforza la convinzione di aver fatto bene a non votare quel bilancio di previsione, viste le stime che potremmo definire “fantasiose”.

Nota a margine: il clima politico

Possono capitare e capiteranno discussioni accese e vivaci in Consiglio. La politica è anche contrapposizione. Scontro costruttivo. Senza alcuna ipocrisia, anche io, in passato ne ho avute di serrate. Quello che non condivido, però, è il clima da far west che si è palesato negli ultimi due consigli comunali. Discussioni che non sono funzionali ma strumentali: “Faccim ammuina”. Non diamo una bella immagine del nostro lavoro di Consiglieri ai cittadini, ma soprattutto non diamo lustro all’istituzione che rappresentiamo. Ben vengano discussioni, anche accese, sul futuro e sulle prospettive di San Giovanni Incarico, ma al contempo mi auguro che la bagarre delle ultime sedute sia una parentesi breve e già chiusa.

Caszely, Allende e Pinochet

Caszely abbraccia Salvador Allende

Caszely e la partita fantasma

Prima scena. Una delle immagini più incredibili di sempre viste su un campo da calcio. Ci sono 15 mila spettatori. Ci sono militari intorno al campo. C’è un dittatore sulle tribune. Ci sono 11 giocatori. Non ventidue, ma solo e soltanto 11. C’è un pallone. Iniziano a giocare, da soli, e segnano un goal simbolico. Su quel campo dovevano esserci i giocatori dell’Unione Sovietica che decisero di non presentarsi: “Su quel campo noi non giochiamo”. No, non c’entra nulla la struttura dello Stadio, il manto erboso o l’altura, come può capitare in alcuni luoghi del Sud America. I giocatori sovietici in quello stadio non vogliono mettere piede perché ci troviamo in Cile ed è il 21 novembre del 1973. E’ lo spareggio per accedere ai mondiali della primavera successiva. In quello stadio, il Generale Augusto Pinochet fino a poche settimane prima aveva torturato e massacrato oppositori politici, giornalisti, donne e uomini cileni. Praticamente, chiunque non fosse dalla sua parte.

Il nostro protagonista, negli spogliatoi, si sente male per la vergogna. Vomita. Per lo schifo di quella parata a cui non è riuscito a sottrarsi, ma giura che è l’ultima volta che dirà sì.

Quando Caszely incrociò le braccia davanti a Pinochet

Secondo atto. Iniziò giugno del 1974. La nazionale cilena sta per partire per i mondiali di calcio tedeschi del 1974. Quelli dell’Olanda di Crujff e della Germania di Beckhenbauer. Una delle edizioni più belle e significative di sempre. Prima di partire il Generale vuole salutare la squadra, ed è, anche avvisato, del caso particolarmente spinoso di un’attaccante, non propriamente allineato al regime. Il generale prosegue e saluta i giocatori, fino a quando arriva di fronte a quello che in Cile chiamano il “Re del metro quadrato”, per la sua abilità finalizzativa nell’area di rigore. Se preferite il soprannome spagnolo, “El Dueno de l’Area chica” (il padrone dell’area piccola).

Si fermano. Si guardano. Si scrutano. Il tempo si ferma e gli attimi diventano secoli. Carlos Humberto Caszely, figlio di padre ungherese, amico di Salvator Allende, incrocia le braccia. Non allunga la mano. Trova quel coraggio che non aveva avuto in precedenza. In quei secondi sicuramente penserà ai suoi familiari, ai suoi amici, alle conseguenze di quel gesto. La sua dignità gli impone di non stringere quella mano, bagnata di sangue e di morte. Se fosse un film ci sarebbe la musica da duello West di Ennio Morricone. Ma diavolo no, non è un film. Caszely dice no, per i suoi compagni ammazzati, per il Presidente Allende, per le donne torturate dai generali cileni. Dice no e ce ne vuole di coraggio. Ce ne vuole tanto, forse troppo per noi comuni mortali. Eppure, Carlos Humberto Caszely, figlio di mamma Olga, nato a Santiago del Cile, il 5 luglio del 1950, vissuto nel barrìo popolare di San Fernando, dice no e ci ricorda, una volta di più che sono gli uomini che fanno la storia. Sono le decisioni di chiunque ad incrinare il tavolo degli eventi.

Caszely e Salvador Allende

La terza immagine ci porta indietro nel tempo. Nel giugno del 1973, Caszely gioca nel Colò Colo, la squadra cilena più forte e conosciuta. I cileni sono impegnati nella finale di Copa Libertadores, La Champions League Sud America (Competizione che si chiama in questo modo per omaggiare il “Libertador”, Simon Bolivar, ma questa è un’altra storia). Allende e Caszely si trovano uno di fronte all’altro ed il Presidente a chiedere una foto. Il simbolo della squadra, l’attaccante del popolo che abbraccia il Presidente. Il ragazzo del quartiere popolare che continua a studiare (“non volevo essere ignorante, perché l’ignoranza è l’arma più forte di tutti i potenti”) che ai tempi del Liceo scopre l’amore per la politica e diventa “militante” per Allende e le sue “Unidad Popular”, da una parte.  Dall’altra c’è lui, Salvador Allende. Antonio SKÁRMETA su Repubblica, nel 2013 lo descrive in maniera esemplare.

“Salvador Allende non era un guerrigliero che un giorno scese dalla montagna, non era un profeta visionario che sbarcò da un’arca con angeli armati fino ai denti, e non era nemmeno un poeta fuori dal mondo che confondeva le nuvole con i carri armati. Era la cosa più simile che ci fosse a un cittadino comune. Non un’apparizione improvvisa, ma una persona che stava tutti i giorni lì dove doveva stare….Per i cileni la sua “rivoluzione” non era l’esercizio della violenza per “far partorire” la storia, ma la paziente, laboriosa lotta di una vita per conquistare, nel 1970, la presidenza della Repubblica che gli avrebbe consentito di dare forma al sogno suo e della società che rappresentava: promuovere un socialismo democratico – con tutte le libertà permesse- differente dai socialismio comunismi esistenti nel mondo. Con espressione fin troppo folcloristica Allende la chiamò «una rivoluzione che sa di empanada e vino rosso»”

Il sogno di un socialismo democratico, raggiunto con mezzi pacifici. Un paese felice. Un popolo che riacquista la sua autonomia ed indipendenza dalle potenze straniere. Per tutti questi motivi, La Cia Finanziò Pinochet. Per tutti questi motivi, “la più grande democrazia occidentale” finanziò un sanguinoso dittatore e gettò tra le sue braccia un popolo intero. Quell’utopia diventata realtà non poteva continuare ad esistere.

La vittoria del “NO” e la fine di Pinochet

L’ultimo frame che utilizzerò per concludere questa storia è la partita di addio al calcio di Caszely. Una partita che diventò un’immensa manifestazione contro la dittatura. I tempi stavano cambiando. Da un tunnel lungo e buio, si iniziava di nuovo ad intravedere la luce. Luce che diventa abbagliante quando il popolo cileno, il 5 ottobre 1988, votando NO, al referendum sbarra la strada alla dittatura cilena.

Il referendum è raccontato splendidamente nel film “No- I giorni dell’arcobaleno”. Chi l’ha visto ricorderà che la chiave di volta per raggiungere la vittoria sarà una brillante comunicazione. Farebbe scuola anche oggi a tanti partiti. In uno di quei video compare la signora Olga, un gagliardetto del Colo Colo e ovviamente il protagonista di questa storia.

 “Sono stata sequestrata e picchiata brutalmente. Le torture fisiche sono riuscita a cancellarle, quelle morali non posso dimenticarle. Per questo io voterò No”. Ad un certo punto entro in scena e inizio a spiegare le mie personali ragioni per il “no”:

“Perché la sua allegria è la mia allegria.

Perchè i suoi sentimenti sono i miei sentimenti.

Perché il giorno di domani potremo vivere in una democrazia libera, sana, solidale, che tutti possiamo condividere”.

“E perché questa bella signora è mia madre”.

Willy e la banalità del male

Willi Monteiro_ La banalità del male

Davanti alla morte di un ragazzo di 21 anni è sempre difficile dire qualcosa. Se poi la morte arriva per un pestaggio, le parole si bloccano. Ti restano in gola, perchè è semplicemente inaccettabile parlare di una morte che ha interrotto una vita nell’età dei sogni e delle possibilità.

 Per questo c’è prima di tutto da riflettere. Pensare. Ponderare e pesare ogni parola. Non scadere nel sensazionalismo, né nella superficialità.

Quando un ragazzo di 21 anni viene ucciso a colpi di botte è sintomo di qualcosa di malato e profondo presente nella società che non si risolve né vietando le arti marziali ( magari, però, controlliamo se tutto è a norma in quella palestra), né parlando genericamente di periferie degradate, specie se chi lo scrive non sa nulla della vita di provincia. Non servono slogan. Serve un’azione lunga e continua con investimenti mirati in cultura ed istruzione. Non servono spot, servono anni ed investimenti, il resto sono chiacchiere buone a riempire le prime pagine dei giornali in questi giorni. Il problema non è Colleferro, Artena o Paliano. Anche se ci fa paura dobbiamo ammettere che quell’episodio sarebbe potuto accadere ovunque. Ovunque.

Quando viene ucciso un ragazzo di 21 anni c’è da riflettere sui tanti sciacalli che da anni avvelenano i pozzi dell’informazione, c’è da ripensare ad ogni fakenews pubblicata sui social utile solamente a fomentare odio e a mostrare una sterile indignazione da leoni del web. Tanti scrivono bestialità, commentando questa o quella notizia, nascondendosi dietro uno schermo. Pochi, ma con evidenti problemi, a quella spirale di odio danno poi seguito nella vita reale.

Quando si è di fronte ad una tragedia come questa non bisogna cedere anche se tremendamente difficile all’impulsi più beceri di una giustizia sommaria che alimenterebbe solo il circolo della violenza. C’è solamente da pretendere giustizia: certa, rapida e senza sconti.

Il problema di fondo è che da troppo tempo in questo Paese dividiamo le persone tra noi e loro ( e la classificazione di loro non è sempre e solo razziale) e sempre troppo spesso sull’altro, su quello che è diverso da noi, scarichiamo tutti i problemi delle nostre esistenze.  Un meccanismo perverso e pericoloso che porta a considerare l’altro da noi semplicemente un intralcio alla nostra vita quotidiana. Non un essere umano, con i suoi sogni, i suoi bisogni, la sua anima, ma un numero, quando va bene. Un’identità non definita. Da questo nasce quella frase che fa rabbrividire: “Che hanno fatto? Hanno ucciso un immigrato.

So già che nella mente di tanti, purtroppo, c’è l’osservazione tipica: Perché non hai/avete scritto questo quando.. citando l’episodio di cronaca x,y o z? La mia risposta è molto semplice: perché questo omicidio mostra e dimostra che evidentemente c’è qualcosa non va nella società e la società è fatta da individui ( anche da me e da te che stai leggendo questo articolo). Non ci troviamo davanti al gesto sconsiderato di un folle, di un omicida, nero, giallo, bianco, rosso che sia, ma di qualcosa di premeditato. Verrebbe da dire, di un vero e proprio stile di vita.  Per questo non è derubricale solamente alla cronaca nera ma ci costringe a riflettere su cosa bolle nella pancia di questo Paese. Pancia pronta sempre a mostrare e gonfiare i muscoli per non fare i conti con il suo vuoto esistenziale e la solitudine. Il rischio evidente è che si finisca come nel libro di Hanna Arendt, “La Banalità del Male”. Uomini superficiali che commettono efferati crimini, azioni orribili, non rendendosi minimante conto di quello che stanno facendo. Superficiali ed inetti, “inabili a pensare dal punto di vista di qualcun altro”.