Un modello popolare per salvare lo sport di base e dilettantistico

Chi vive in Provincia, in un piccolo centro o in un borgo, che piaccia o non piaccia, sa che difficilmente si esula da tre punti cardinali: la piazza, la chiesa, per chi crede, ma soprattutto il campo sportivo. Quest’ultimo non è solamente il luogo dove si fa sport, che già non sarebbe poco, ma è il luogo principale dell’aggregazione sociale. Dove cresci, fa esperienze, ti confronti e a volte ti scontri. Questo triangolo in pratica sostituisce i 4 consueti punti cardinali nella crescita di ogni abitante di quel luogo. Così, vale anche nelle periferie delle grandi città nelle quali, in molti casi, le società sportive diventano praticamente l’unico servizio di welfare esistente, nel dopo scuola.

Senza girarci intorno, una delle tante conseguenze del Covid 19 è il rischio concreto della distruzione di questo tessuto dilettantistico e di base. La stagione attuale è, ovviamente, chiusa ma stando così le cose anche la prossima è forte rischio. Le giuste e doverose norme a tutela della sicurezza difficilmente riusciranno ad essere attuate dalle società che si barcamenano tra mille difficoltà ed in molti casi si basano su un lavoro volontario o quasi.

Le conseguenze sociali sarebbero catastrofiche. Le conseguenze sulla salute dei ragazzi sarebbero davvero serie.

Eppure, una strada per tentare di evitare il disastro c’è. Il primo punto, ovviamente, è la stesura di protocolli sanitari ad hoc per queste piccole realtà. La seconda osservazione è di gestione e prospettiva, riguarda il modello sul quale ricostruire il sistema, ovvero quello di un azionariato popolare e diffuso. L’unico modello attualmente sostenibile che consentirebbe, da una parte, di ridare maggiore stabilità alle Asd, dall’altra, di unire come un collante l’attività sportiva e la comunità. In una parola: coesione sociale. Uno sport che può e deve tornare ad essere popolare, uno sport che deve essere permesso a tutti, uno sport che non può essere un lusso per pochi circoli.  Difficilmente ci saranno mecenati, grandi o piccoli, pronti a sobbarcarsi le spese delle piccole società, difficilmente le spese saranno sostenute dai Comuni, certamente, però, potrebbero essere sostenute dall’intera comunità.

L’azionariato popolare all’estero.

Se guardiamo all’Europa, questo modello è normato e normalmente utilizzato, anche dalle società professionistiche. Per rendere più chiaro il concetto facciamo alcuni esempi “celebri”. Il più eclatante è certamente il Barcelona, il club simbolo dell’identità catalana, è posseduto da 170.000 soci. In Bundesliga, la serie A tedesca di calcio, i tifosi detengono, democraticamente strutturati, il 51% dei club. In Inghilterra si stanno sviluppando sempre di più i “Supporter Trust”: organizzazione in associazioni o cooperative di tifosi, che hanno, fra gli scopi sociali, quello di acquisire delle quote societarie del club di riferimento.

La situazione in Italia

Come spesso accade, la realtà è già più avanti della politica. Dopo il fallimento della società, in molti casi è avvenuto che intere città si mobilitassero per salvare il club, Ancona, Palermo e Taranto, solo per citarne alcune.  Degna di nota è sicuramente la vicenda de “Il Centro Storico Lebowski che centra in pieno lo spirito di questa proposta. Da un’intervista su un sito web locale si può leggere:

“Possiamo dire che grazie allo strumento cooperativo adesso il Lebowski è davvero una proprietà collettiva dei suoi tifosi, indifferente a ogni tentativo di scalata, di accentramento, a ogni invadenza del mercato”. “La nostra idea – proseguono – è che un Club debba rappresentare un territorio, una comunità, e vivere del coinvolgimento del territorio stesso. Di regola, un club dovrebbe investire nel suo progetto sportivo non un euro in più di quanto la mobilitazione del territorio a suo sostegno gli permette. Se in tanti danno poco, il club ha un futuro garantito e una base solida su cui programmare”. “Perché questo avvenga – rilanciano – è necessario che il Club si dimostri un punto di riferimento simbolico e materiale per la comunità. Quello che non fanno più nel professionismo e, purtroppo, sempre meno anche tra i dilettanti. Un Club deve occuparsi di educazione, di solidarietà, di lavoro, di aggregazione, della salute, di arte, di musica, di poesia; deve essere consapevole di avere le risorse per occuparsi dei temi che sono maggiormente sentiti dalla popolazione. Questo è quello che cerchiamo di fare con il Centro Storico Lebowski”.

Un altro esempio degno di nota è quello delle palestre popolari: la più famosa si trova a Roma, è la storica palestra popolare di San Lorenzo, ed è raccontata splendidamente qui.

Cosa è che manca allora in Italia? Una legge chiara e semplice che vada a definire un unico soggetto giuridico attraverso il quale realizzare l’azionariato popolare, magari incentivando con sgravi fiscali le donazioni elargite per sostenere lo sport popolare. La definizione di un partenariato pubblico (Enti Locali) – Privato (Impresa) – Comunità (Popolo), sarebbe preziosa come acqua nel deserto.

Questo tipo di modello, of course, sarebbe auspicabile anche nei club professionistici, ma quella, “è un’altra storia” e magari ci tornerò.

Quello che mi interessa, adesso, ed è una vera urgenza sociale è salvare questo mondo fatto di uomini e donne, di ricordi, di polvere e di fango, di sudore, di anima popolare, di felicità e di passione vera. Di salvarlo e di migliorarlo. Molte volte questi argomenti escono completamenti dai ragionamenti politici, vengono snobbati, eppure basterebbe guardarsi intorno una domenica qualsiasi per capire cosa rappresenta questo mondo e quanto è importante per una fetta enorme del Paese.

Umberto Zimarri, Ufficio di Presidenza Green Italia

Buon 25 Aprile

25 Aprile, il Natale della democrazia per un Paese intero. Suona diversa questa data in questo 2020 forse perché abbiamo vissuto anche noi per la prima volta una reale privazione della libertà. Abbiamo capito cosa significa non poter fare quello che si desidera. Questo virus ha colpito principalmente i testimoni diretti di quel drammatico periodo storico per questo cresce ancor di più la responsabilità collettiva di ogni cittadino italiano nella cosidetta “Memoria attiva”: ricordare non per retorica ma per difendere e trasmettere.  La memoria non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco.

Ha un sapore diverso questo 25 aprile: abbiamo riscoperto l’importanza del pubblico, del sociale e della socialità. Sentirete tanti parlare di libertà, in varie salse, pochi parlare di liberazione. A chi dice che è un giorno divisivo possiamo ricordare semplicemente che divide chi crede nell’Italia Repubblicana da chi sostiene un regime antidemocratico. Abbiamo vinto noi e sei diventato senatore; se aveste vinto voi io sarei morto o in galera, ricordava perfettamente Foa. Provate a dire ad un francese che il 14 luglio sia retorico, vedete cosa vi risponderà.  

Cosa significa oggi il 25 aprile: significa essere senza se e senza ma contro gli Orban, i Trump e i Bolsonaro, significa credere in uno sviluppo diverso e realmente sostenibile, significa pretendere per tutti un lavoro dignitoso e pretendere che nessuno muoia sul posto di lavoro, significa credere nella solidarietà tra popoli. Significa essere umani, Significa lottare per un mondo più giusto. Significa percorrere i sentieri tracciati con chiarezza dalla Costituzione italiana. Significa sognare un mondo migliore per noi e per chi verrà dopo di noi. Come ci hanno insegnato tanti anni fa, lassù in montagna.

Buon 25 Aprile

La notte in cui tutte le vacche sono nere

Ogni giorno un sovranista italiano si sveglia e sa che dovrà gridare ancora più forte “Prima Gli Italiani” e correre più veloce del sovranista austriaco…
Ogni giorno un sovranista austriaco si sveglia e sa che dovrà gridare ancora più forte “Prima Gli Austriaci” e dovrà correre più veloce del sovranista tedesco..
Ogni giorno un sovranista tedesco si sveglia e sa che dovrà gridare ancora più forte “Prima i Tedeschi” e dovrà correre più veloce del sovranista olandese…
Ogni giorno un sovranista olandese si sveglia e sa che dovrà gridare ancora più forte “Prima Gli Olandesi” e dovrà correre più veloce di tutti gli altri sovranisti, per dimostrare di essere il più nazionalista di tutti gli altri.

Chi ha seguito la mia e la nostra campagna elettorale di un anno fa, lo ricorderà, lo ripetevamo spesso: l’internazionale nazionalista ha un piano chiaro, quello di far saltare l’Unione Europea, tout court. Il problema che sta venendo fuori in queste ore è politico, totalmente politico, il problema non è l’Europa ma il nazional-sovranismo. Può sembrare banale ma l’Europa non è un’entità astratta, l’Europa è fatta, banalmente, dagli Europei. Europei che votano i Governi. Chi ha il potere di prendere le decisioni, in questo momento, non sono i parlamentari europei, ma i Governi eletti da ogni stato membro. Pensateci, la vittoria dell’estrema destra in Olanda era stata festeggiata e acclamata da Fratelli D’Italia come se fosse una vittoria dello stesso partito. Semplicemente è così. Il partito dell’internazionale sovranista aveva vinto, ed oggi governa secondo quei dettati politici per loro sacrosanti che non prevedono certamente la solidarietà tra Stati e la visione continentale.

Stanno venendo fuori quei problemi cronici che mai si è avuto il coraggio di affrontare, su tutti, i processi di democratizzazione delle istituzioni europee e l’assenza di partiti, realmente, europei capaci di declinare in ogni nazione lo stesso paradigma: lingue diverse per un unico grande messaggio. L’estrema destra, sfruttando la sua natura l’ha fatto, gli altri l’hanno timidamente accennato. La mancanza di un unica voce la stiamo pagando a caro prezzo, così come l’abbiamo pagata per l’incapacità di gestire il problema migratorio.

Non esiste però la notte in cui tutte le vacche sono nere. Questo lo dobbiamo rigettare.

Come possiamo vincere il pregiudizio dei paesi del nord, a cominciare proprio dalla Germania, che non vogliono condividere i rischi della nuova crisi con i paesi più deboli economicamente perché non vogliono pagare per il nostro debito?

È nel loro interesse collaborare. Questa è una crisi senza precedenti e tutti i paragoni che si possono fare con la crisi dell’euro sono fuori luogo. Nessuno era preparato a questa crisi, sicuramente non eravamo preparati economicamente. E’ chiaro che questa crisi ha bisogno di una risposta europea perché nessuno può farcela da solo. Anche la Germania da sola non può farcela, perché nessuno potrà comprare i suoi prodotti. Non è possibile immaginare che nell’Unione Europea un paese da solo possa recuperare.

Queste parole, per esempio, non sono state pronunciate da un italiano o da uno spagnolo. Ma da Ska Keller, la leader dei verdi tedeschi in Europa. Lo stesso potremmo dire del discorso da Gerhard Schröder sui Corona Bond

Se è vero che bisogna fare di più e sono inaccettabili i veti di Olanda ( lo apriamo un dicorso sui paradisi fiscali?) e Germania, è altrettanto sacrosanto che senza l’ombrello di Bruxelles, saremo in una situazione che definire drammatica sarebbe estremamente riduttivo.

Ora, però, bisogna fare e non si può fallire: o se ne uscirà insieme o non se ne uscirà. E’ il tempo in cui i ragionamenti globali devono diventare rapidamente azioni locali.

Prospettive per il futuro

L’ennesima emergenza rimette in tavola questioni che la crisi del modello associativo fin qui conosciuto ha progressivamente sepolto, tentando di rimuoverlo definitivamente insieme a concetti come solidarietà, cooperazione, mutualità, welfare e via declinando la necessità di essere “società”.

Molto tempo è passato, e molte cose sono mutate da quando il vecchio di Stagira accreditava la caratteristica “sociale” dell’uomo e tuttavia la natura stessa, che sia madre o matrigna poco importa, si incarica ogni tanto di riportare alla luce le radici di quell’essenza, che non è affatto istintiva e invece, proprio come i tratti somatici (con buona rassegnazione dei razzisti) è frutto dell’esperienza accumulata nei tempi.

Esperienza non necessariamente consapevole, così come quella che ci fa la pelle scura o i capelli biondi. E tuttavia in grado di plasmare la nostra effettiva tendenza ad essere. Qualcosa di complesso, di non immediatamente o schematicamente riducibile a formula, ma che tuttavia necessita di tempi storici per modificarsi. 

Intendiamo, nel caso specifico, la tendenza talmente depositata da essere percepita come “naturale” (nel senso di insita, connaturata) ad essere animali sociali, a ricercare cioè, e costruire, strutture di compartecipazione allo sforzo di vivere. Compartecipazione che si rivela sia negli aspetti economici che in quelli affettivi, sia nelle conquiste culturali che nelle condizioni di convivenza.

E proprio quando i rapporti economici tendono a promuovere l’individualismo e si indebolisce progressivamente l’idea del “privato” come “politico” nell’illusione di poter bastare ciascuno a sé stesso, la casualità di un problema cui non siamo preparati e contro cui le risposte individuali non hanno alcun effetto, ci ripone di fronte alla questione se sia o meno possibile fare a meno dei concetti e delle pratiche di cui all’inizio (solidarietà, cooperazione,…).

Un terremoto devastante come quello del Centro Italia o l’incendio dell’Australia o dell’Amazzonia o le alluvioni ormai sempre più ampie e frequenti, le lunghe guerre con orrendi massacri di inermi e innocenti e cospicue devastazioni dell’ambiente ci fanno sentire deboli e poveri. Ma fenomeni simili sono comunque considerati circoscritti, “locali” e inducono al più a sperare che non tocchi a noi e fare qualche piccola donazione taumaturgica.

Quando la tragedia assume proporzioni generali, ossia in senso letterale investe il genere umano intero, come nel caso dei fondamentalismi criminali del terrorismo internazionale, o come una pandemia mortifera e sconosciuta come quella che affrontiamo oggi, nessuno si sente più protetto, relativamente al sicuro, nessun rifugio è inviolabile. 

E allora ci si riscopre umani, si dichiara il desiderio di contatto umano, sia pure nelle forme ingenue dell’abbraccio, della convivialità spicciola, e piano piano si comincia a ricostruire almeno l’immagine delle relazioni, e della loro necessità pratica, vitale, non certo ideologica.

Si smette di vedere gli altri come ostacoli alla propria libertà ed autodeterminazione, al contrario li si considera indispensabili per la promozione di sé, che può avvenire solo attraverso relazioni effettive, scambi, riconoscimento, non certamente attraverso l’autocompiacimento della clausura fisica o comportamentale che sia.

Ora, se fossimo tutti sinceri, dovremmo anche veder sparire le illusioni nazionalistiche, razzistiche, discriminatorie in genere, inconsistentemente fondate sulle differenze come fossero limitazioni e non invece ricchezze. Il genere, i limiti fisici e psichici, la salute, il censo, il livello culturale, il ruolo sociale, i caratteri somatici non dovrebbero più valere come elemento di gerarchizzazione della popolazione, la quale dovrebbe naturaliter divenire finalmente popolo, inteso come collettività cosciente, consapevole, impegnata per il progresso comune e generale delle condizioni materiali di vita. Dove per condizioni materiali si intende non solo ciò che attiene ai bisogni fisici, ma tutto quanto concorre “materialmente”, ossia di fatto, allo sviluppo della dignità umana.

Tutti vediamo, con una certa volontà di fiducia, come si manifesta oggi, nella necessità di stare lontani, la voglia di stare vicini che decliniamo come possiamo, rimettendo il tricolore a segnale di unità, non più quindi come distintivo ma come aggregante, dentro il quale, come vorrebbe la Costituzione che è il programma di una società e non un testo lirico, c’è posto per tutti purché non ne tolgano ad altri. Cantiamo dai balconi e ci commuoviamo per il sacrificio di chi opera per combattere il virus non solo per mestiere, per dovere contrattuale, ma nella grandissima maggioranza anche per alto senso civico, per quello che un tempo si sarebbe chiamato dovere morale. Cerchiamo perfino di sdrammatizzare, un po’ ridendoci sopra con esorcismi satirici, un po’ cercando rassicurazione in auspici sentimentali e tutto sommato infantili come “andrà tutto bene” o “insieme ce la faremo”.

Infantili e sentimentali, non stupidi. Perché, sia pure in una declinazione quasi nazional-popolare, questi atteggiamenti rimettono in vista l’essenza della lunga battaglia della civiltà contro la barbarie: mentre tutto il mondo si sforza di conservare l’umanità, la disumanità qui e là fa comunque capolino, a ricordarci che la virtù non è automatica e che bisogna combattere per preservarla. Trump e Johnson, qualche sciacallo che ruba dall’ospedale i presidi di difesa dal contagio, nella loro ignobile manifestazione, rafforzano però la reazione positiva, intanto di condanna e subito dopo di allontanamento da chi propugna egoismi e pratiche socialmente delinquenziali.

Che questa esperienza produca riposizionamenti nelle relazioni di massa e accenda qualche lanterna su aberrazioni come razzismi, sessismi, fobie e altre tragedie, è abbastanza prevedibile. Quali saranno le dimensioni e soprattutto la durata di queste riacquistate facoltà è da vedere.

Però su questo si può intervenire. Lo si può fare a livello istituzionale (altrimenti non si capisce a che serva la democrazia) e anche a livello sociale, intervenendo come cittadini organizzati (meglio) o singoli per riproporre una lettura civile, umana, dignitosa dei rapporti sociali, dei diritti, delle finalità del nostro operare.

Come ANPI ci auguriamo e lavoreremo affinché anche questa guerra sia di monito e ci consegni, oltre ai lutti e ai danni, la possibilità di promuovere con maggior forza ed efficacia gli strumenti per la costruzione ed il rafforzamento di quanto è messo in discussione dall’individualismo, dal consumismo, dalla spettacolarizzazione della vita stessa.

Giovanni Morsillo – Presidente provinciale Anpi Frosinone

L’Emilia- Romagna, noi e la sfida per il futuro

Il muro non è crollato, Stalingrado è ancora salva. Ad occhio e croce, per la sinistra queste elezioni erano diventate il classico dentro-fuori, più simile ad una semifinale di Coppa, utile a salvare la stagione che ad una “semplice” elezione regionale e diciamo che già questo dovrebbe farci riflettere sui disastri combinati ad ogni livello.

La notizia più bella che ci fa guardare con speranza al futuro è certamente il successo clamoroso di Elly Schlein. 22098 preferenze. La più votata. Il dato sorprende per dimensioni, certo, ma chi ha avuto modo di conoscerla personalmente era sicuro di una grande affermazione. Perché diciamolo chiaramente quei voti sono davvero meritati. Nella sua sfida “Coraggiosa” ci sono certamente quei principi che tante e tanti cercano da tempo: la capacità di fare squadra, la freschezza dei contenuti, l’onestà, la capacità, una politica che studia gli argomenti ma è capace al contempo di renderli popolari, la chiarezza e per l’appunto il coraggio di dire le cose come stanno. “Siamo andati bene – ha detto – anche nelle aree di provincia e in Appennino. Non vogliamo fare la sinistra della ztl, perché la sinistra può e deve tornare a parlare a quei territori che si sono sentiti un po’abbandonati». Questa è la chiave di volta per togliere le radici al salvinismo: le periferie, le campagne, le zone interne. Luoghi in cui servizi sono stati depotenziati, in cui i paesi invecchiano, in cui i cittadini spesso si sentono e vengono trattati come persone di Serie B.

Questo modello è replicabile? Sì, certamente sì, a patto che il progetto non sia guidato dalla voglia di accapararsi un seggio, una poltrona, un ruolo in prima fila ( tutto quello che ha ammazzato nella culla Leu), ma sia animato da quei principi di eco-socialismo e di lotta alle disguguaglianze, necessari oggi in Italia. Un soggetto in cui sia presente un vero e profondo cambio generazionale al vertice. Il tema come ha osservato Andrea, non è entrare o no nel Pd, il punto cruciale è la ricostruzione del campo progressista, il superamento delle isole l’una contro l’altra armate dell’arcipelago della sinistra, un grande, paziente, capillare lavoro culturale e politico.

Un’identità chiara, dei punti programmatici netti e riconoscibili, un lavoro lungo e paziente sul territorio. Se qualcosa ho imparato da questi anni di militanza politica è che le persone hanno bisogno di conoscere e riconoscere i candidati ed il loro staff. Di esserci non solamente in campagna elettorale, ma di esserci sempre 365 giorni l’anno. Vogliono che qualcuno si prenda cura dei loro problemi e dei loro sogni.

Un’altra considerazione che sento di condividere riguarda banalmente che le piazze social, senza le piazze reali valgono poco. Questo ce l’hanno ricordato le sardine che hanno semplicemente mobilitato le persone che non ci credevano più, che erano deluse ( giustamente) dalle politiche (sbagliate) di questi anni. La sinistra,tutta, nel decennio passato ha smesso di mobilitare, di essere in piazza, si è chiusa su se stessa. Ha giocato sempre in difesa. Ora no, bisogna tornare ad incontrarsi, a confrontarsi, a trovare punti di incontro, ad ascoltare il mondo reale, ad unire la visione con un solido pragmatismo territoriale. Non possiamo accontentarci solamente di un nobile lavoro culturale.

Naufraga il M5S nella Regione che l’aveva visto nascere: se ripeti per anni che di notte tutti i gatti sono neri, ma poi viene il giorno e si nota la differenza tra un Salvini qualsiasi ed il resto del Mondo, se governi indistintamente sia con il Pd, sia con la Lega, se al al tuo interno hai politici opposti per Dna, se i tuoi Ministri, nella stragrande maggioranza dei casi, sono inadeguati al loro compito, arriva il momento in cui ti sciogli come neve al sole. La campana suona per tutti.

Insomma guardiamo al futuro con un pizzico di speranza in più, ma con la convinzione che un cambio di passo a livello nazionale e sui territori, non sia solo auspicabile ma necessario.

Conte II: tutto o niente

Tutto o niente, opportunità o fallimento, un governo capace di unire o quanto meno riavvicinare due anime nate dalla stessa costola o una baruffa continua di pochi mesi. Questi sono gli opposti scenari del Governo Conte II ed il limite, tra un successo ed una Caporetto, è davvero esile.

Il matrimonio tra Pd e 5 Stelle nasce nel momento in cui i due partiti sono al punto di massima distanza. Nessuno si sarebbe scandalizzato nel 2013, quando l’accordo sembrava il naturale sbocco alla “non vittoria” Bersaniana. Nessuno si sarebbe scandalizzato quando il M5S candidava Rodotà, Prodi e Gino Strada al Quirinale ( solo per dirne alcuni). In 6 anni è successo di tutto ed il contrario di tutto: Letta e l’Enrico Stai Sereno, Renzi, il Partito nazione e il 4 dicembre da una parte, la scatoletta di Tonno, gli streaming, l’opposizione dura e pura, la vittoria alle politiche, l’accordo con Salvini ed il tracollo dall’altra.

Se il lancio della Moneta darà Niente, il risultato lo sappiamo tutti: la Lega sfonda alle prossime elezioni politiche, Salvini e La Meloni eleggeranno il Presidente della Repubblica e ci saranno cenere e macerie nei dem, nei 5 stelle e anche a sinistra del Pd, incapace di organizzarsi decentemente in questi anni. Fine della partita. Game, set, match per la Lega e i sovranisti ed in questo caso la toppa sarà stata peggiore del buco.

Se il lancio della Moneta darà tutto, beh, inizia una nuova storia che ipoteticamente potrebbe e dovrebbe portare ad alcuni interessanti scenari, su tutti la responsabilizzazione del Movimento ed una riconnessione sentimentale con alcuni pezzi di elettorato persi per sempre nella boria e nell’immobilismo di questi anni dalle parti del Nazareno. Raramente si avrà la possibilità in Italia di un Governo che potrebbe agire con coraggio sul welfare, sui diritti sociali e civili, sulla riconversione ecologica dei sistemi di produzione e della società, sulla valorizzazione dei beni comuni, sulla centralità di un sistema di welfare pubblico e la ricostruzione di un rapporto costruttivo con le parti sociali. Pensiamoci ma soprattutto ricordiamo, a chi sta nella cabina di regia, di non sprecare questa insperata e probabilmente ultima occasione.

Come iniziare dunque a riempire questo vuoto attuale? Evitando di riproporre i dirigenti che nei governi Renzi/Gentiloni non ne hanno beccata una neanche per sbaglio ed i Ministri del Conte 1, costruendo un Governo in cui le donne siano presenti e protagoniste (ma non per riempire una casella ma per dimostrare che si ha un’idea completamente diversa di società e quindi di politica), scegliendo in base alla competenza, al merito e non alle correnti, riconoscendo la disumanità dei decreti sicurezza 1 e 2, lavorando sul cuneo fiscale delle aziende, ragionando sui grandi temi dell’automazione industriale, mettendo in sicurezza il territorio italiano, indiscutibilmente europeista nel senso autentico del termine.

Insomma abbiamo bisogno di un Governo che non prometta l’assurdo, che sia meno spaccone e più umile, che faccia delle cose semplici e per bene, mostrando rispetto per le Istituzioni e agendo seguendo i principi della nostra Carta Costituzionale. Chiedo troppo?

L’urgenza di un’alternativa


Le immagini del Ministro on the beach rimbalzano ovunque sulla nostra rete, ci indignano e seguono il corso di tanti altri piccoli e grandi show da baraccone, tirati su ad arte per non affrontare i problemi reali. Fumo negli occhi. 
Scimmiottare Salvini su questa/e cose, però, nonostante il nostro sdegno non ci salverà: non smuoverà un consenso che sia uno.
Tra un insulto e una sagra, Salvini comunicativamente non vuole apparire come un Ministro della Repubblica, non vuole farlo, non ha idea di farlo. Vuole apparire il più “comune” possibile, parlando un gergo che si muove tra il razzista ed il trash. 
Quindi che fare? Abbiamo bisogno di costruire una proposta alternativa, chiara, popolare ma non populistica, capace di spiegare e di far capire che da un anno e mezzo a questa parte abbiamo visto solo propaganda.
Abbiamo bisogno di capire ( se non l’abbiamo ancora capito) che così non va, che nessuno è autosufficiente, che nessuno può permettersi di alzare bandiere e bandierine ed uscire dall’autoreferenzialità. Abbiamo bisogno di rimettere in discussione tutto, per alzare al più presto, almeno, un muro di contenimento. La gara a dire io l’avevo detto/ io l’avevo fatto, in questo particolare momento storico, vale quanto essere ricco a Monopoli. 
Dettare un’agenda, avere una visione e lavorare nelle città, sui territori, nei quartieri. Prendersi pure qualche insulto nei mercati o davanti qualche call center, ma esserci. 
Lo stato liquido o gassoso o semi liquido dei vari partiti è più o meno omeopatico. Una cerbottana vs un carro armato.
Essere pratici, partire da un piccolo risultato per arrivare a un risultato più grande e complesso. Essere coerenti e credibili. 
Insomma per avere un consenso elettorale, bisogna prima di tutto stare nella società, far maturare le nostre idee in essa, parlare anche a quel pezzo di Paese che sembra irrimediabilmente perso. 
Per me si parte da due punti fissi: ecologia e socialismo. Non può esistere una una società umana capace di sostenibilità nel tempo, se non è una società giusta, con un forte livello di consapevolezza, istruzione, partecipazione.